Che tristezza parlare delle cose belle solo nei brutti momenti. Perché una gita scolastica (pardon, una visita di istruzione) dovrebbe essere una cosa bella anzi bellissima, da ricordare per tutta la vita. Ma ovviamente fa notizia solo quando c’è qualcosa di brutto; magari due tragedie in fotocopia come quelle successe a Milano nel giro di pochi mesi. 



L’altra volta avevo cercato di scrivere qualcosa, a proposito dell’assurda morte di Domenico Maurantonio. Ma ero a disagio nel mescolare i miei troppi dubbi a tutta la sapienza che tanti commentatori spandevano ogni quarto d’ora.

Stavolta, nel caso di Elia Barbetti, le condizioni al contorno sono sembrate più chiare. Forse per questo molti grilli parlanti a gettone si sono tenuti a riposo, e il dibattito ha cercato argomenti più di fondo, proposte concrete. Non a caso Tuttoscuola ha riportato come i vertici dell’Anp, dopo un primo sfogo e sia pure da posizioni dialettiche, abbiano condiviso un’analisi sulla serietà dell’argomento: che non può essere semplicisticamente risolto abolendo le gite.



Io ne sono un forte sostenitore, e se il programma mi convince non mi tiro indietro né dall’organizzarle né dall’accompagnarle. Anche se ogni volta, al ritorno, il mio angelo custode mi chiede un weekend di libera uscita per riprendersi dal superlavoro. Ne avevo già scritto su queste pagine, osservando che non serve poi moltissimo per partire col piede giusto. O quantomeno non deliberatamente con quello sbagliato, come rimarcava un bel titolo scelto dalla redazione.

È giusto e sacrosanto che ci sia un accurato ripensamento a livello sia centrale sia locale, a patto che sia per andare avanti e non indietro. Tra le proposte pro-gita formulate da Tuttoscuola, alcune mi lasciano perplesso. Che bello portarsi dietro anche qualche genitore; ma — al di là del facile sospetto che in tali condizioni sarebbero i figli a non voler partire —  funzionerebbe solo in occasioni (e con genitori) fuori dal comune. Non escludiamolo, ma sarebbe grottesco pensare di farne una regola. 



Ancora più perplesso mi lascia l’idea di costituire un albo o registro delle agenzie e dei trasportatori idonei. Molte scuole, partendo da quelle con sistemi di gestione certificati, il proprio albo dei fornitori ce l’hanno già: ma nessuno crede che sia uno scudo contro le disgrazie. E non penso che la scuola italiana senta il bisogno di ulteriori carrozzoni o cartelli centralistici. Che, nella migliore delle ipotesi, farebbero aumentare costi, burocrazia e intralci, ma senza impensierire gli eventuali malintenzionati.

Al contrario trovo assolutamente rilevante che si stabilisca un compenso decoroso per gli accompagnatori, cominciando magari da quelli che puntano verso l’estero dove mancano pure i rimborsi spese. E — prima ancora del riconoscimento economico — che il fatto di organizzare e accompagnare un viaggio in modo ottimale venga considerato positivo dalla famosa “valutazione”. 

Lo so che a questo punto certi colleghi ignavi farebbero la fila per accompagnare chiunque e dovunque, anziché lasciare il campo ai più motivati. Non ce ne libereremo mai. Però è giusto che chi guida un gruppo per più e più giorni, e tra l’altro già si sobbarca l’onere delle guardie notturne senza che nessuna circolare lo espliciti, si veda compensato per questa competenza ed attitudine: che non è meno professionale di quella esibita alla cattedra.

Ripartire da zero — come è stato giustamente detto — può essere l’idea più efficace. Tornare alla lettera di quelli che dovrebbero essere gli scopi di una visita di istruzione, specie se di più giorni. Cioè un’azione totalmente inserita nel percorso didattico di quella certa classe, in quel certo momento del proprio cammino di formazione; non nel carnet dell’agenzia di viaggio. Con scopi ben precisi e condivisi nella sostanza, prima ancora che nella forma, da tutte le componenti del consiglio di classe. Un momento che in certi casi si potrebbe addirittura riconoscere nel percorso di alternanza scuola-lavoro, altro che distrazione dalle lezioni. Ovvero il contrario del “dove andiamo in gita quest’anno? All’Expo? Oh peccato, è già finita, allora Barcellona”. 

Uno scambio culturale con un’altra scuola? La visita non meramente turistica a qualche struttura di eccellenza nei settori specifici approfonditi dalla classe? Meglio ancora se alla fine di un cammino ragionevolmente esteso di preparazione collettiva, in cui la gita sia il naturale sviluppo del lavoro fatto nelle ore di lezione. Così che non la si attenda come una interruzione del tran tran, auspicata o temuta, ma ci si appassioni per essere pronti a viverla al meglio. 

Vale per una quinta che corona un lungo cammino; vale per una seconda o una prima, quando passare anche solo una notte in un contesto in cui si-fa-scuola-ma-in-modo-diverso può essere un’esperienza così importante.

Una semplice discriminante: quanti insegnanti, al ritorno dalla gita, farebbero svolgere una verifica scritta per valutarne il riscontro all’interno della propria programmazione ordinaria — con un voto che fa media, per dirla brutalmente? Nessuno? Allora forse è il caso di non partire, o almeno di cambiare programma.

Un altro segnale che l’atteggiamento dei docenti non è quello opportuno? Proviamo a pensare se ci vien da dire “se non fate i bravi, nessuno vi accompagnerà”. Ok, allora le condizioni sono sbagliate. Ribaltiamo la prospettiva: se lo scopo è chiaro e ben definito, la gita non deve essere né più premiante, né più punitiva di ogni altra lezione. Se la classe non lavora bene e crea preoccupazioni e sfiducia, semplicemente non ha senso pensare di arricchire la programmazione con un approfondimento fuori sede: non si va in gita per la banale ragione che non c’è motivo per andarci. 

Men che meno per qualche avvenimento alla moda. La transumanza verso l’Expo, che si è vista sopratutto alla ripresa autunnale, non solo ha congestionato oltre ogni limite delle strutture di accoglienza già traballanti, compromettendo una visita decente per i tanti turisti interessati. Ha anche riproposto lo schema dell’andare dove vanno tutti e semplicemente perché ci vanno tutti. 

Luoghi meravigliosi come Venezia, Praga, Amsterdam non possono essere buone mete per le gite scolastiche: perché ci sarà troppa gente che va lì senza sapere cosa ci va a fare (o sapendolo fin troppo bene, ma transeat). 

Proprio chi avrebbe ottimi motivi per sceglierle, se organizza le cose seriamente finirà per rinunciarvi. Ma anche prima dell’era del low cost gli organizzatori più attenti puntavano ai luoghi meno probabili, dove buona parte del gruppo difficilmente capiterà al di fuori della scuola. 

Poi, diversifichiamo il periodo di uscita: se si è incastonato il viaggio nella programmazione annuale, perché mettersi in fila nella ressa di inizio primavera, e non invece a novembre, in bassissima stagione? Che poi le mete estere siano di gran lunga da preferire a quelle italiane è così chiaro che non insisto sui motivi; e non solo per chi, come me, sta in una scuola che è a tre chilometri dai confini dell’Ue, molto più vicina a Strasburgo o a Berlino che a Roma o a Palermo.

Arrivato in fondo, mi accorgo che nemmeno stavolta ho detto una parola sulle tragedie di Domenico e di Elia. Va bene così. Un poeta come Ivan Graziani aveva già capito tutto, con la straziante delicatezza di “Kryptonite”. 

Meglio pensare in positivo: ad ogni singola giovane persona che ricorderà, per tutta la vita o almeno per un bel po’, quanto è stata bella quella gita che abbiamo saputo organizzare e vivere insieme.