Domenica 11 ottobre ho ascoltato la lezione fatta a Bologna da Julián Carrón su scuola ed educazione. Immediatamente colpita per come mi aveva fatto rileggere le mie esperienze di insegnante e di madre, ho poi afferrato, attraverso il commento di Elena Ugolini, il punto centrale della questione: l’efficacia di un insegnamento (sia dal punto di vista della trasmissione del sapere che dell’educazione) ha un punto di appoggio fondamentale, che ci sia un “io” a cui rivolgersi e un “io” che insegna. Quindi il nodo centrale per l’insegnante diventa attivare l’io attraverso il suo modo di insegnare, oppure riattivarlo, quando ha perso l’interesse, la sensibilità, la passione, su cui cresce la motivazione e l’adesione al lavoro. Già alla fine della lezione, nell’aula in cui ero con un gruppetto di insegnanti torinesi, nasceva la domanda: “anche per la matematica?!”.

Ebbene, sì, anche per la matematica, posso affermarlo per esperienza. Sono un’insegnante di matematica in pensione, ancora interessata alla scuola per il “soccorso” a studenti con qualche difficoltà e per la ricerca didattica con alcuni insegnanti. Questo è interessante perché mi fornisce un duplice punto di vista.

Cosa vuol dire riattivare l’io dell’allievo insegnando matematica? La domanda sull’educazione me la ponevo già con alcuni amici al tempo dell’università. Finivamo per dirci che agli insegnanti di lettere sarebbe stato possibile educare, perché i contenuti che trattano sono vicini all’umanità, ma che a noi “tecnici” non sarebbe stato possibile. Molto presto però ho preso coscienza di non essere solo un tecnico; insegnando, la mia cultura cresceva e si approfondiva, il dialogo con gli allievi mi permetteva di scoprire le loro domande. Nell’insegnare matematica, la mia persona era coinvolta in modo inatteso.

Ho iniziato come tutti, facevo lezione “raccontando” la matematica. Questo raccontare mi obbligava a studiare e a ripensare, era per me un viaggio. Non finivo di scoprire nessi e significati, andando al fondo di argomenti che avevo sempre giudicato semplici. Mi accorsi che per dare spiegazioni, non potevo ripetere l’argomento tale e quale come l’avevo spiegato. Per empatia e intuito cercai di entrare nei sentieri sconosciuti della mente e della concettualizzazione, cercando poi conferme nello studio. 

Insegnavo a gente seria, studenti universitari che avevano scelto lo studio scientifico, non ostili alla matematica, anche se non tutti appassionati. Con il passare degli anni, il livello di preparazione degli allievi scendeva, iniziavano a presentarsi anche tra i miei studenti alcuni casi di difficoltà. Ma quando i miei figli andarono a scuola mi si aprì un mondo nuovo: intelligenti a casa, poco brillanti a scuola. Erano entrati in un mondo dove per la matematica il sapere proposto era solo un insieme di regole, a cui il loro “io” si sentiva estraneo, regole già fatte, non legate a questioni per loro significative, ad esperienze effettive, concrete o mentali. 

Cominciai a capire che l’amore o disamore per la matematica e la capacità o meno di studiarla erano legate alla mancanza di coinvolgimento dell’io. Studiando e discutendo approfondii il rapporto con qualche collega universitario, in particolare con Adriana Davoli di Milano, e iniziai un rapporto di lavoro con alcuni insegnanti. Insieme aprimmo gli occhi, imparai molto e pensai che l’esperienza che andavamo costruendo, di studio e di insegnamento nelle classi, non doveva andare persa. Ci unì il desiderio di verificare le nostre intuizioni e dare corpo ad un lavoro che altri potessero incontrare. Le nostre certezze non venivano solo dall’autorità accademica (che non disdegnavamo) ma soprattutto dalla verifica di ipotesi nell’esperienza, ipotesi sull’apprendimento e sulla vera natura della matematica. Io e la collega Adriana Davoli ci unimmo con un gruppo di maestre che avevano partecipato ai nostri gruppi di ricerca in una Associazione che chiamammo MaPEs, matematica-pensiero-esperienza. 

Eravamo ormai certe che il disamore e le difficoltà in matematica ponessero un problema educativo, che occorreva spostarsi dall’educazione matematica all’educazione della persona, favorire la partecipazione attiva di ciascuno, accompagnarlo nel costruire il pensiero personale, riattivare il legame con la realtà, tornare sul piano dei significati, normalmente sepolto e dimenticato sotto le “esigenze” del calcolo e dell’apprendimento meccanico. Gli strumenti c’erano, uno davvero efficace era il problema, noi dovevamo però imparare ad usarlo come strumento di concettualizzazione e non come un esercizio ripetitivo. Dovevamo poi innescare l’attività di riflessione sull’operato, negli allievi ma anche negli insegnanti, passo decisivo per imparare. Non basta fare per apprendere! E’ un equivoco pericoloso.

Imparammo iniziando dalla scuola primaria, cioè nel momento in cui a scuola l’io si apre alla realtà, può aderire o no al lavoro metodico che la scuola offre, si abitua ad un modo di guardare e di gestire il compito, con il quale affronta poi le scuole successive. 

L’esperienza di una formazione a distanza con una scuola di Bogotà ci suggerì di iniziare anche qui in Italia una formazione di quel tipo. Proponemmo dei canovacci abbastanza sintetici e le insegnanti che aderivano ci inviavano “diari di bordo” su cui potevamo discutere con loro via mail.

I diari sono raccolti e classificati sul nostro sito e forniscono un valido strumento di confronto per nuovi insegnanti di scuola primaria.

Abbiamo pubblicato articoli e libri. Alcuni insegnanti di scuola secondaria si stanno unendo a noi. Il compito che ci si presenta è grande, contiene una revisione dei contenuti per sottolineare la costruzione nella mente a partire da azioni significative, accentuare la fiducia nel pensiero di ciascun allievo, evitando di farne un ripetitore dell’insegnante e del testo, saper alternare momenti di lavoro comune con altri di lavoro personale, provocare la discussione (non sulla matematica, ma sul lavoro fatto, perché imparare è una storia), comprendere come l’attività fisica e il gioco aprono la via al pensiero. 

Ma non siamo soli e speriamo che nascano momenti di confronto e possibilità di collaborazione. All’ultimo Meeting di Rimini, Carlo Wolfsgruber e Eddo Rigotti hanno presentavano il loro lavoro per la scuola superiore. Siamo a conoscenza del lavoro (a Roma) di Ana Millán Gasca, intervenuta ad uno dei Seminari che MaPEs propone ogni anno in giugno alle insegnanti di scuola primaria, a Milano in Cattolica. Conosciamo il lavoro del suo allievo Luigi Regogliosi e il lavoro di Grazia Cotroni, anima della Bottega di Matematica di Diesse. Con le nostre stesse ipotesi, si interessa da molti anni di formazione matematica per le scuole libere l’associazione “Il rischio educativo”. Molti di noi hanno collaborato con Raffaella Manara in occasione della mostra sulla matematica del Meeting 2010, occasione in cui è stata sottolineata il legame di questa disciplina con un “io” sensibile e attivo. Quanti altri non conosciamo? Probabilmente sono molti e lancio una proposta: incontriamoci per riconoscerci, raccontarci esperienze significative, sostenerci reciprocamente.