La polemica francese sulla riforma del collège — che equivale alla nostra scuola media più il primo anno delle superiori — ha posto con maggiore chiarezza di quanto non avvenga di solito nel nostro Paese il problema del difficile rapporto fra scuola di massa e scuola di élite.

I francesi non sono contenti del funzionamento della loro scuola che, soprattutto da parte della sinistra attualmente al governo, viene ritenuta troppo segregante e poco in grado di sviluppare la mobilità sociale e l’integrazione: il periodico esplodere dei giovani delle banlieues ne sarebbe il segno. Bisogna ricordare che in quel Paese il merito scolastico è tuttora considerato uno strumento di promozione sociale e che gli apparati statali sostanzialmente tengono, anche se paradossalmente ciò non sempre aiuta lo sviluppo della società, perché sono al tempo stesso “ingessati”.



I punti cardine della riforma sembrano essere desunti da un Sillabo di pedagogia “progressista”.

Il 20% del piano di studi potrà essere deciso dalle scuole e qui l’opposizione teme l’aumento dei poteri dei presidi o una eccessiva differenziazione fra le scuole a favore dei già privilegiati. Per un italiano la curiosità è se i francesi realmente utilizzeranno questa possibilità, nel nostro paese negletta non solo per ragioni relative alla tutela dell’organico.



Vengono introdotti gli Epi (Insegnamenti Pratici Interdisciplinari), un’area in cui più discipline dovrebbero confluire in un Progetto o Ricerca al fine di coinvolgere e motivare maggiormente gli studenti. E qui si teme il prevalere di un aspetto ludico, la diminuzione dello sforzo concentrato sulle discipline, l’abbandono insomma di una buona vecchia strada a favore di una nuova ed incerta. 

Una volta tanto nel nostro paese si è giocato d’anticipo su questi temi, anche se per lo più solo a parole.

Ma la lotta all’elitismo si concentra soprattutto in due altri provvedimenti: fine delle classi bilingui (soprattutto di tedesco) che dal ’96 avevano raccolto il 16% degli allievi e fine dell’insegnamento autonomo di latino e greco che aveva raccolto peraltro una percentuale via via decrescente di allievi, di poco superiore al 15% per latino ed a circa il 3% per greco. Dopo alte proteste, invece di essere aboliti, latino e greco sono diventati un Epi “Lingue e culture dell’antichità” e per i sopravvissuti volontari c’è anche la possibilità di un’aggiunta, sempre però con un orario inferiore al precedente.



Qualunque sia la forma differenziata che nei diversi paesi assume la battaglia fra scuola di élite e scuola di massa, il succo è sempre quello: diversificazione dell’offerta, tentativo di avvicinamento alla realtà attraverso interdisciplinarità ed operativizzazione degli apprendimenti, marginalizzazione degli insegnamenti tradizionalmente umanistici, in particolare se ritenuti di eccessiva difficoltà. 

Livellamento verso il basso, dicono gli oppositori. Maggiori esigenze verso tutti dicono i sostenitori della riforma. E non sempre il confine passa rigorosamente fra destra e sinistra, come nel nostro paese.

In questa occasione il cuore del dibattito non si è collocato sulla crescente centralità degli apprendimenti strumentali di base quali la Lingua 1 e la Matematica, di cui è indicatore lo strapotere mediatico delle valutazioni standardizzate esterne (Pisa, ma non solo). Ma ciò è avvenuto perché in Francia questo è stato il tema del decennio scorso e delle conseguenti riforme. In Italia la polemica sulle prove dell’Invalsi — nelle sue forme più nobili — nasce dallo stesso problema. 

Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo assistito ad un’espansione illimitata della scolarità; oggi ne sono massimi corifei l’Ocse, che sostiene la corrispondenza fra scolarità e sviluppo economico e, dopo essersi concentrato sull’obbligo (per usare una terminologia italiana) spinge ora verso la generalizzazione della scolarità secondaria. 

Alla base diversi filoni di pensiero: la teoria del capitale umano (istruzione come condizione di sviluppo economico) ed il pensiero” progressista” che vedeva l’istruzione come strumento principe di democratizzazione ed equità sociale. In questo ambito, soprattutto in Italia, si è sviluppata l’aspirazione ad una “umanizzazione” universale che ricomprendesse finalmente anche le classi sociali finora escluse con la diffusione attraverso la scuola della cultura storico-letteraria. La scuola di élite doveva e poteva diventare la scuola delle masse, una volta costituzionalmente rimossi gli ostacoli economico-sociali. Una impostazione problematica tipicamente europea.

Negli Usa, culla della società di massa, la cultura è sempre stata di massa, attenta alla creazione del cittadino e non a particolari contenuti culturali. Nel mondo emergente, soprattutto in Asia, la cultura “umanistica” è sempre stata confinata a ristrettissime élites e, nel momento in cui ci si è avviati alla scuola di massa, neppure i governi di ispirazione comunista hanno pensato di estenderla a tutti (non sono note forme bonsaizzate dei terribili  concorsi per diventare mandarini cinesi). Ed oggi, in Asia come in Africa, il problema è come alfabetizzare masse sterminate di persone facendo sì che i notevoli investimenti delle organizzazioni mondiali siano davvero efficaci; l’accesso formale alla scolarizzazione di base è quasi universale, ma a quanto pare non altrettanto le reali capacità di leggere, scrivere e fare di conto.

Ma la scommessa europea, soprattutto dei paesi di lunga tradizione culturale, di fare spezzare con gioia e frutto a tutti il pane del sapere “critico” non è vinta. In Italia sembra di dovere assistere ad un costante analfabetismo funzionale, ad un persistente gusto popolaresco nei consumi culturali (c’è chi attribuisce a ciò il flop di Downton Abbey) ed in complesso alla perdita di prestigio della cultura umanistica storico-letteraria.

Discorso difficile questo. Non è solo colpa di Berlusconi. Dall’Illuminismo in poi l’idea di progresso dell’umanità era strettamente legata all’idea di cambiamento delle “tecnologie” della società, della sua organizzazione insomma (liberismo? socialismo? comunismo? totalitarismo?). A questo fine la conoscenza della storia e delle modalità espressive artistiche che ritraevano la società umana era indispensabile. 

Dopo la crisi novecentesca di queste ipotesi, la stessa idea di progresso sembra legata alle tecnologie della natura (ultimamente informatica e biotecnologie), per la cui evoluzione e gestione sono necessarie a livello di élite ed anche a livello di massa strumentazioni funzionali e diventano superflue quelle tradizionali. 

Donde la centralizzazione sulle competenze strumentali: prima e seconda lingua, matematica, informatica, skills trasversali. Porre l’asse della valutazione dei sistemi scolastici su questo core “strumentale” sembra dunque derivare dalla necessità di incrementare effettivamente il livello di alfabetizzazione anche di strati di popolazione in passato (ed in futuro?) irriducibili alla formazione tradizionalmente “culturale”.

Ma, tornando alla Francia, non sembra solo da passatisti riflettere sul rischio di una completa sparizione dal panorama italiano ed europeo del retaggio culturale, che peraltro nei nostri licei si è banalizzato o ghettizzato.

Per l’Italia sarebbe una scelta produttivamente masochista, vista la retorica che si fa sui “giacimenti culturali”. Ma anche per il mondo l’ignoranza della storia e delle culture può causare grossi guai, come sembrano suggerire le avventure degli Usa nei paesi arabo-musulmani.

Solo che il latino non può essere difeso solo dicendo che “fa ragionare”, e far leggere il Paradiso di Dante (e magari anche fingere di tradurlo e commentarlo) a chi non sa usare la consecutio temporum e d’estate al massimo riesce a leggere Fabio Volo, non sembra essere una buona politica di conservazione.

Sarebbe utile che anche nel nostro paese se ne discutesse seriamente, evitando di dividersi a priori fra i sostenitori delle prove Invalsi e quelli di Luciano Canfora.