Immaginate di capitare nel mondo di Flatlandia (dal racconto di Edwin A. Abbot), l’ipotetico universo bidimensionale i cui esseri hanno solo lunghezza e larghezza, che entra in contatto con un abitante di un universo tridimensionale. Immaginate di essere quest’ultimo e di dover spiegare ai primi la propria condizione e la propria “diversità”.
Ebbene questa è un po’ la percezione che spesso chi vive nel mondo dell’Alta formazione artistica e musicale (Afam) sente nei confronti dell’ambito universitario in cui è stato inserito sedici anni fa con la legge n. 508 del 1999 di riforma del settore.
Parliamo delle istituzioni musicali (73 conservatori-istituti superiori di studi musicali, più quattro istituti accreditati), artistiche (44 accademie di belle arti, tra statali e legalmente riconosciute), l’Accademia di arte drammatica e l’Accademia di danza di Roma, gli istituti superiori di industrie artistiche (quattro), le altre istituzioni private accreditate (tre).
La legge riconosce a queste istituzioni la funzione di enti di formazione superiore, cioè le inserisce nel terzo livello della formazione (quello appunto “universitario”). E infatti la normativa (DPR 212/2005) permette di rilasciare titoli accademici (diplomi) di primo e secondo livello, di perfezionamento, di specializzazione e di formazione alla ricerca. Titoli che varie leggi (268/2002, 228/2012) hanno adeguato (definendo le equipollenze) ai titoli di studio rilasciati dalle università.
Ma l’iter della riforma è bloccato da molti anni. Solo i corsi di studio di primo livello sono usciti dalla sperimentazione (e solo dall’a.a. 2010-11); i corsi di secondo livello sono ancora sperimentali; quelli di formazione alla ricerca non sono mai stati autorizzati dal ministero anche quando le istituzioni sono in grado di realizzarli; tutta la normativa e la pratica che riguarda il reclutamento e l’individuazione dei docenti è tuttora quella pre-riforma, di ispirazione scolastica secondaria e non sempre efficace a garantire il massimo della qualità come necessario in questo ambito; pre-riforma sono anche l’assetto delle istituzioni sul territorio nazionale e la consistenza degli organici delle istituzioni statali (80). L’organo di rappresentanza del settore previsto dalla Legge (il Cnam) è scaduto nel 2012, dopo essere stato prorogato per ben tre volte, e da allora mai più rinnovato, e nulla si sa del suo destino. La nuova organizzazione del dipartimento per la formazione superiore e la ricerca del Miur, cui l’Afam afferisce, ha visto l’eliminazione dal 2013 della direzione generale che si occupava specificatamente del settore, e questo sta aggiungendo un ulteriore ritardo al già enorme ritardo accumulato in questi sedici anni. Continuano per esempio a non essere emanati quella dozzina di decreti mancanti espressamente previsti dalla legge 508, tra cui i fondamentali regolamenti che riguardano la programmazione, il reclutamento, la valutazione.
Un’inazione che crea paralisi in altri organi correlati (per esempio in Anvur, l’agenzia nazionale per la valutazione, che da alcuni anni autonomamente ha avviato una riflessione interna, in attesa di provvedimenti ministeriali), e provoca una stratificazione di problemi irrisolti che col passare del tempo diventano sempre più difficili da risolvere.
In questo desolante quadro e in attesa di segnali di attenzione concreti, che segnino la direzione dello sviluppo e le tempistiche di attuazione del completamento della riforma, l’unica indicazione che riguarda l’Afam giunge dalla volontà di associarla al comparto della scuola, anziché a quello dell’università, nella prossima ridefinizione (razionalizzazione) dei comparti di contrattazione previsti dai decreti Brunetta e Madia. Un passo indietro che ci riporta anche sotto questo profilo al secolo scorso.
Urge quindi conoscere cosa il governo vuole veramente fare del sistema della formazione superiore artistica italiana che conta una storia e un prestigio noto in tutto il mondo, ma che giorno dopo giorno si allontana sempre più dal sistema europeo di cui farebbe parte, e non certamente per volontà o mancanza di capacità da parte dei docenti e del personale che ci lavora.