La Buona Scuola (legge 107/2015) promette, stando al testo, di coniugare scuola e lavoro. L’art. 1, comma 33, prevede, infatti, che i percorsi di alternanza scuola-lavoro siano attuati, negli istituti tecnici e professionali, per una durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno dei piani di studio, di almeno 400 ore e, nei licei, per una durata complessiva di almeno 200 ore nel triennio. Si tratta di un monte ore obbligatorio che riguarda tutta la scuola secondaria superiore e che modificando il curricolo degli studi comporta l’adesione a metodologie didattiche in cui il lavoro diventa parte strutturale della formazione. 



Per meglio dire, è la stessa alternanza una metodologia che permetterebbe l’acquisizione, lo sviluppo e l’applicazione di competenze specifiche previste dai profili educativi, culturali e professionali dei diversi corsi di studio, mediante forme di apprendimento flessibile, che colleghino il lavoro in aula all’esperienza pratica. Sono osservazioni, queste ultime, che già si leggevano nelle Linee guida per il secondo biennio e il quinto anno degli istituti tecnici e degli istituti  professionali del 2012. Ora, con la Buona Scuola tale approccio risulta rafforzato, con inevitabili ricadute sulle attività di orientamento post-diploma degli studenti e su quelle di formazione degli insegnanti che dovranno essere rigorosamente indicate nella stesura dei Piani triennali dell’offerta formativa, che comunque garantiscono agli istituti scolastici una certa autonomia di movimento. Tra l’altro, come indicato nella “Guida operativa” sull’alternanza scuola-lavoro pubblicata a cura del Miur all’inizio dello scorso mese di ottobre, questa nuova visione, destinata a rivoluzionare l’attività scolastica, implicherebbe la stesura di regolamenti, scuola per scuola, in cui è definita la “Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola lavoro”, con la possibilità, per lo studente, di esprimere una valutazione sull’efficacia e sulla coerenza dei percorsi con il proprio indirizzo di studio. 



La base dell’incontro tra scuole e imprese, destinate ad accogliere gli studenti, è la dimensione dell’apprendimento modificato nella sua sostanza e nelle modalità con cui è sviluppato finora nella “scuola tradizionale”. Nella nuova ottica l’apprendimento si configura come “ambiente di apprendimento” in cui la scuola e l’impresa allo stesso modo si presentano allo studente come luoghi di progettazione e laboratorialità. Il laboratorio è la nuova frontiera dell’apprendimento, per cui la scuola laboratorio, in regime di alternanza, e non solo, rimanda alla scuola impresa, nella quale i giovani allievi sono seguiti affinché maturino competenze adatte ad affrontare le nuove sfide del lavoro. 



A questo proposito, occorre ricordare che da settembre 2015 è attivo il bando per la realizzazione di “laboratori territoriali per l’occupabilità” da parte delle istituzioni scolastiche: la scadenza per la manifestazione di interesse da parte delle reti di scuole statali, che possono comprendere anche scuole paritarie, era posta al 16 ottobre scorso. Il contributo del Miur per ogni singolo laboratorio è fissato in 750mila euro, pari ad un finanziamento complessivo di 500 milioni di euro, di cui 45 milioni sono già stanziati nell’ambito del Piano Nazionale Scuola Digitale. 

Sì, perché in un intreccio che pare inestricabile, ma che come detto corrisponde ad un preciso orientamento educativo, l’esigenza di riqualificare i giovani usciti dai percorsi di istruzione (Neet) si congiunge alla necessità di innovare anche i percorsi formali di formazione. Il Piano Nazionale Scuola Digitale, appena varato dal Miur, dopo anni di dibattiti, fa appunto riferimento a forme di autoapprendimento e autoimprenditorialità da avviare, affinché “i giovani possano costruire nuovi percorsi di vita e lavoro, fondati su uno spirito pro-attivo, flessibile ai cambiamenti del mercato del lavoro”. 

Le nuove prospettive che si affacciano, cariche di indubbio interesse, se pensiamo che i giovani già sono immersi in ambienti virtuali e digitali, dovranno comunque fare i conti con esperienze e buone pratiche che già esistono nel panorama della cultura dell’alternanza scuola-lavoro del nostro Paese. Tra ristoranti didattici, simulazioni d’impresa e offerte di “training center” da parte delle imprese, non mancano punti di eccellenza che dovranno essere valutati e valorizzati dai diretti responsabili dei percorsi formativi dei giovani, gli insegnanti, come un’opportunità per la crescita complessiva delle persone che sono loro affidate. E gli insegnanti senza timori per le occasioni che si affacciano dovranno radicarsi in una storia che insegna che il lavoro non è né una maledizione né una punizione. All’insegnante spetta il gravoso compito di rendere l’introduzione al lavoro non una delega in bianco all’impresa, né una acquiescenza a modelli uniformanti ma una sfida educativa.