“Ma chi è pronto ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno. La tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti”. Queste parole di Philip Roth, da Pastorale Americana, sono le prime che mi sono venute in mente di fronte allo strazio imponderabile che ha improvvisamente raggiunto una tranquilla famiglia di Ancona. Una famiglia per bene: Fabio Giacconi, quarantanovenne sottufficiale dell’Aeronautica, ridotto ad un’agonia ormai senza speranze, e Roberta Pierini, sua moglie, uccisa da due colpi di pistola esplosi dall’appena maggiorenne Antonio Tagliata, fidanzato della figlia Martina, ragazza di soli sedici anni e presunta complice del suo amato.



Nel romanzo sopracitato dello scrittore statunitense, la follia omicida della giovane Merry si abbatte su un piccolo ufficio postale del paese uccidendo due uomini, come protesta contro l’insopportabile America degli anni sessanta, contro la guerra in Vietnam, probabilmente contro se stessa e la sua idiosincratica insicurezza, evidenziata da una balbuzie inguaribile. Probabilmente verso suo padre Seymour Levov, il padre perfetto, l’uomo che incarnava il sogno americano del successo, della tranquillità familiare, del benessere come paradiso terrestre. Quello del vecchio Levov è un risveglio brusco. La follia omicida della giovane figlia lo costringe a fare i conti con la morte, con l’imprevedibilità del destino, innanzitutto con la domanda di senso sul dolore, sul tempo, sul nulla. Domande che il vecchio aveva definitivamente espulso dalla sua vita programmata, costruita e oliata alla perfezione.



Ma nemmeno questa possibilità è stata concessa alla coppia di mezz’età marchigiana. Il giovane Tagliata, quello che sarebbe potuto essere il loro genero, il loro unico genero, li ha lasciati in una pozza di sangue senza nemmeno il tempo di porsi quell’ultima domanda, quella più terribile ed essenziale: “cosa ci facciamo qui?”, “a chi abbiamo dato la nostra vita?”, “a chi affidare quest’ultimo respiro?”. Forse a Fabio, in coma irreversibile, sarà dato il tempo di quest’ultimo passo, il tempo di un’ultimo barlume di coscienza nel pallore delle mura dell’ospedale. Fabio, come tutti i padri del mondo, desiderava il meglio per la sua bambina. Fabio, come i padri di tutti i tempi, desiderava il miglior uomo al fianco della sua piccola. E forse Antonio non rispondeva proprio al canone del maresciallo. Il ragazzo di cui si era innamorata la giovane Martina aveva alle spalle una famiglia turbolenta, un passato oscuro. Forse troppo oscuro da sopportare anche per un ragazzo dalla scorza tanto apparentemente dura quanto profondamente fragile come Antonio.



Antonio Tagliata ha i capelli da bullo della scuola, da chi si difende da solo dai colpi della vita, e come unica arma ha le nocche della mano che allena con la boxe; e chissà, chissà cos’aveva visto negli occhi di Martina, chissà quale possibilità, chissà quale destino lontano dalla durezza della strada e dalla violenza a cui il padre l’aveva abituato. Lo stesso destino che ognuno di noi ha immaginato dentro ogni amore, anche quello più passeggero e flebile, anche dentro l’infatuazione adolescenziale che durava appena gli ultimi venti giorni di agosto. Ma sarebbero stati felici, ne erano certi Antonio e Martina. Perlomeno erano certi che avrebbero fatto di tutto per esserlo, lo esigevano a tutti i costi. Lo esigeva il loro amore. Lo esigeva la loro libertà impazzita. Fino al corto circuito. Fino a quell’insana idea, che come un virus avrà assalito l’intreccio amoroso dei giovani. Una linea sottile, superata la quale l’io sembra diventare onnipotente, padrone ultimo di sé e dell’altro: “uccidiamoli, saremo finalmente liberi, io e te. E nessun altro. Poi ce ne andremo, senza sapere bene né dove, né come, né quando”.

La pistola procurata chissà come — da un nomade di dubbia provenienza, confessa Antonio —, gli otto colpi (Martina ricorda perfettamente il numero, due sulla madre, sei sul corpo del padre che fuggiva verso il balcone alla ricerca di aiuto) e poi il vortice del non senso, del vuoto, del nulla. Il sogno crivellato in quegli otto colpi. Al silenzio dei due killer pian piano si sostituisce il chiacchiericcio dei media. Il tribunale degli spettatori con pop-corn e Coca Cola, noi, quelli aldilà dello schermo.

Senza rendersi conto che questo non è un film. Senza rendersi conto che un fatto del genere non si liquida con qualche commento come quello della folla che fila via dal multisala, prendendo la parte di uno dei protagonisti; questa è realtà. E questa è una tragedia che riguarda tutti. Girando per i social network si percepisce subito chiaro che lo scivolamento nella soap opera o nel compatimento pietistico è la conseguenza di un atteggiamento a monte, l’atteggiamento di una strenua difesa. Per arginare l’ombra spaventosa dell’incomprensione, dello sconcerto, della terra che ci frana sotto i piedi. La difesa della nostra vita tranquilla, della nostra vita di onesti lavoratori, di figli accondiscendenti e ubbidienti, di genitori accoglienti. 

La difesa dal rischio di doversi accorgere che in fondo non siamo proprio quello che pensiamo di essere, di scoprire che la tragedia di Martina, Antonio, Fabio e Roberta è la tragedia di ognuno di noi. E’ irresistibile la tentazione di prendere il nostro male, estirparlo e riversarlo nei corpi perforati e ormai inermi dei due genitori o nei corpi svuotati dei due giovani. 

E’ irresistibile la tentazione di rifiutare l’accaduto come qualcosa che in fondo non ci interessa, ridurlo a qualcosa di esterno, che riguarda “loro”, che riguarda quegli efferati assassini, ragazzi senza speranza, o al massimo riguarda i loro genitori, troppo duri e irreprensibili. Senza renderci conto che, se anche ognuno nella propria barricata, in fondo ci troviamo tutti nello stesso angusto recinto.

Ma quegli efferati assassini, questa volta, sono proprio i nostri ragazzi. Martina andava a scuola tutti i giorni, senza mai saltare un’ora di lezione all’Iis Vanvitelli Stracca Angelini. Sedeva affianco ai nostri figli, faceva ginnastica insieme a loro, prendeva l’autobus, tornava a casa, andava al cinema e sognava una famiglia. Il vuoto di Antonio e Martina è il nostro vuoto. Il peccato di Antonio e Martina è il nostro peccato. Dice il testo di una canzone: “non è morto il male nel mondo e noi tutti lo possiamo fare, non è difficile essere come loro”. Si riferiva ai criminali dei campi di sterminio di Auschwitz, penso che ripeterebbe oggi le stesse parole.

E’ questa la nostra tentazione, quella di chiudere la partita, di circuire l’ignoto, di bloccare l’imponderabile prima che venga a bussare alle porte della nostra vita borghese, chiedendoci che cosa speriamo, chiedendoci cosa salva il rapporto con i nostri genitori, con i nostri figli; chiedendoci su che cosa abbiamo fondato il breve tempo che ci è concesso su questa terra.

Ma se vogliamo vivere da uomini, se vogliamo che quei corpi non siano caduti invano, se vogliamo nutrire la speranza che ci sia un destino buono anche per la gioventù irrimediabilmente spezzata di quei due ragazzi, non possiamo perdere l’occasione di lasciarci interrogare fino al midollo dalla crudezza dello strazio che ha investito queste due famiglie.

Non possiamo perdere l’occasione di chiederci che cosa può salvarci e metterci nelle condizioni di stare di fronte all’incomprensibilità del dolore e della tragedia di tutti noi.