Il tema è, da tempo, all’ordine del giorno: com’è noto, l’attuale sistema è disciplinato dal DM 249/2010 che, dopo la chiusura nel 2008 delle scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario (Ssis), avrebbe dovuto introdurre le lauree magistrali a numero chiuso per l’insegnamento e il conseguente anno di tirocinio formativo attivo (Tfa), volto al raggiungimento dell’abilitazione. In realtà, si è visto come le cose siano andate a finire: dopo cinque anni passati a districarsi all’interno di un intricato labirinto composto da due cicli di Tfa in “perenne” regime “transitorio”, percorsi abilitanti “speciali” (Pas) e lauree magistrali per l’insegnamento previste e mai avviate, ricorsi e contro-ricorsi di vario genere, ecco un nuovo intervento del legislatore.



La legge n. 107/2015 delega, infatti, la riforma della disciplina della formazione iniziale degli insegnanti al Governo, che dovrà adottare, entro 18 mesi dall’approvazione della stessa (avvenuta lo scorso 9 luglio 2015), uno o più decreti legislativi al fine di provvedere al «riordino, adeguamento e semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria, in modo da renderlo funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione» (art. 1 c. 181 lett. b).



Quest’opera di “manutenzione” della normativa riguarderà sia la fase di formazione iniziale sia quella di vero e proprio reclutamento dei docenti.

Mentre per la seconda si conferma l’ottocentesco sistema concorsuale (nihil sub sole novi), pur con la promessa, in verità per nulla nuova nella storia della politica scolastica italiana, di dare avvio a «un sistema regolare di concorsi nazionali per l’assunzione, con contratto retribuito a tempo determinato di durata triennale di tirocinio, di docenti nella scuola secondaria statale»; per la formazione iniziale la delega afferma di voler introdurre «un sistema unitario e coordinato che comprenda sia la formazione iniziale dei docenti sia le procedure per l’accesso alla professione, affidando i diversi momenti e percorsi formativi alle università o alle istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica e alle istituzioni scolastiche statali, con una chiara distinzione dei rispettivi ruoli e competenze in un quadro di collaborazione strutturata».



Il nuovo sistema prospettato prevede, in estrema sintesi: 

Il conseguimento di una laurea magistrale (all’interno della quale andranno acquisiti almeno 24 Cfu nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e in quelle concernenti le metodologie e le tecnologie didattiche);

La partecipazione a un concorso per l’assunzione, con contratto di tirocinio retribuito a tempo determinato di durata triennale;

Il conseguimento, al termine del primo anno di contratto, del diploma di specializzazione (“abilitante” (?) in quanto titolo valido per insegnare nelle scuole paritarie, ex art. 1 c. 181 lett. b, punto 8);

Dopo ulteriori due anni di tirocinio, la sottoscrizione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, all’esito di positiva conclusione e valutazione del periodo di tirocinio.

Due brevi considerazioni al riguardo.

1) Unitarietà non è sinonimo di qualità e di efficienza. Mentre il coordinamento tra formazione iniziale e reclutamento appare non solo necessario, ma anche opportuno, l’unitarietà tra questi due elementi rischia di rappresentare un’invalicabile, oltreché irragionevole e controproducente, rigidità: abilitazione non significa diritto all’assunzione. Questo “nodo gordiano”, foriero nel passato di tanti equivoci, non è affrontato, ma semplicemente aggirato, unificando le due – distinte – fattispecie. Non a caso anche la Fondazione Agnelli in un suo recente documento ha sollevato notevoli perplessità laddove la “Buona Scuola” «non distingue chiaramente ciò che va tenuto distinto: abilitazione e assunzione».

2) Teoria e pratica rimangono separate. Come rilevato anche da alcuni tra i primi commentatori appare quantomeno un’anomalia, rispetto ad analoghe esperienze europee in atto dove teoria e pratica sono sempre più integrate tra loro, «che esperienze sistematiche di tirocinio diretto nella scuola siano ritenute necessarie solo dopo 13 anni di scuola, più 5 anni di università, più 1 anno di specializzazione abilitante» (Giuliana Sandrone, Formazione iniziale degli insegnanti e “Buona scuola”, in «Nuova Secondaria», n. 2, Anno XXXIII, 2015, pp. 12-14). Sembra quasi di essere di fronte ad uno “strabismo” del legislatore, dove da una parte impone, giustamente ancorché tardivamente, la valorizzazione dell’alternanza scuola-lavoro per gli studenti delle secondarie; dall’altra se ne dimentica completamente appena passa al livello della formazione universitaria e, nel caso in oggetto, a quella dei futuri docenti. 

Nell’ottica de iure condendo, la delega rischia dunque di essere fin troppo vincolante, limitando ogni slancio realmente innovatore e riformista.

Ciò nonostante, questa fase, pur nelle richiamate criticità e negli angusti margini forniti dalla delega legislativa, può costituire almeno l’occasione per avviare un dibattito che — grazie alla caduta di ormai superati “steccati ideologici” e con l’obiettivo di evitare l’ennesima pastoia sindacale/burocratica — coinvolga il mondo delle università, della scuola e della stessa amministrazione scolastica, centrale e periferica, così come si è iniziato a fare con l’avvio, lo scorso 29 ottobre, del quinto tavolo di confronto al Miur su “Formazione docenti e accesso all’insegnamento” e come avverrà, per esempio, oggi,17 novembre, in un convegnoall’Università di Bergamo.