Apro Facebook e non ne trovo più. Neanche in televisione, neanche per strada. Cerco disperatamente tutte quelle argute considerazioni sul motociclismo che fino a dieci giorni fa mi intasavano la bacheca, ma tutti gli ingegneri e i meccanici si sono d’un tratto dileguati. Al loro posto sociologi esperti di geopolitica mediorientale; lacrimevoli, tricolori sociologi. Le opinioni impazzano dappertutto: in rete, allo stadio, ai concerti, nei ristoranti. E fanno paura quasi quanto l’Isis, perché sono ancora più vicine, più numerose. Durano poco, e si intervallano ad altre discussioni: già venerdì sera si parlava un po’ degli attentati e un po’ di quanto aveva fatto l’Italia col Belgio. E anche gli scenari di guerra, da qui, protetti dietro ai nostri schermi, sembrano quasi il Risiko. Com’è raro piangere, com’è raro pregare! Sì, dire che si piange e che si prega è più facile che piangere e pregare. «Piangere e pregare non basta», sentenziava Severgnini sul Corriere di domenica: i ragazzi «vadano ad ascoltare musica e a ballare». Come se ballare ci salverà, come se tornare nei ristoranti ci salverà. Quando invece quei fiori della nostra civiltà libera, staccati dalla radice, sono petali all’aria, in balia dei falciatori. 



Se ne parla in classe, si fa anche il minuto di silenzio, lunedì mattina. E un attimo dopo si torna a giocare ai piccoli terroristi: minacciando quelli che pensano di entrare a scuola il giorno dopo. Martedì non si entra: il 17 novembre pare sia la giornata del diritto allo studio. E giustamente non si entra. Perché il giorno del diritto alla torta un bel digiuno ci sta tutto. Non bisogna entrare. Certo, sono minacce fatte di parole: menomale che, oltre alle parole, non ci sono Kalashnikov a disposizione. Come se le parole non fossero armi: come se i «no religion» e «no countries» di Imagine non fossero armi. Come se davvero tutta la logica fosse la solita, evergreen semplificazione del noi e loro: noi buoni e loro cattivi. Come se quelli che chiamiamo loro non fossero noi: europei, cresciuti nelle nostre scuole, nei nostri ristoranti, nei nostri concerti. Come fossero mele marce, come se lo stesso veleno non fosse sparso su tutte le mele, anche quelle così belle sul bancone. Come se l’odio degli altri non fosse parente del nostro odio, di quello che non vuole vedere crocifissioni né di Chagall a Firenze né nelle classi di Bologna: ci vantiamo di non essere più medievali, ma figli invece della rivoluzione francese (che tagliavano le teste anche loro, senza diffondere video). La ragazzina innocente non ti risponde all’interrogazione di storia sul cristianesimo perché si dichiara atea, e il ragazzo si crede trendy perché appena interrogato bestemmia il Principale, e si gloria di avercelo pure come stato su WhatsApp. 



Desolazione. Tutto il mondo ci invidiava, e noi ci siamo vergognati di quello per cui ci invidiavano. Contentezza perché oggi non si fa lezione, si perde tempo a parlare di Parigi. Dei morti di Parigi. E martedì per la maggioranza né scuola né manifestazione: la coperta è troppo calda. Amiamo la vita più di quanto loro amano la morte? Al suono della sveglia, amiamo la vita? Cerchi lacrime vere in giro, senza schermi, ma si nascondono. Poi incontri Annalisa

«Venerdì sera ero a casa quando ho saputo degli avvenimenti di Parigi. Sono rimasta atterrita da tanta brutalità. Tutto ciò mi ha suscitato una domanda: perché? Non riuscivo e non riesco a capire il senso di quanto accaduto. Questa domanda continua a tormentarmi da giorni. Mi chiedo cosa sarà dei genitori di quei ragazzi che erano semplicemente andati ad ascoltare un concerto (come accade anche a me), di quei bambini che erano a casa dei nonni perché i genitori erano a cena fuori e che sabato si sono ritrovati orfani. Tutto questo non riesco proprio a capirlo. Mi sento preferita, è vero, ma ciò che è accaduto non mi sta affatto bene. Un Dio che permette tutto ciò, che Dio è? Sarà anche vero che noi vediamo solo una parte del Suo disegno, ma non riesco comunque a giustificare l’accaduto. Ho letto una decina di articoli che riportavano opinioni o raccontavano il fatto, ma continua a non bastarmi. Mi sento impotente, vorrei poter fare qualcosa, poter essere d’aiuto e non posso. Mi sento come una formica che cerca di spostare una pietra enorme. Posso stare alla realtà che mi viene messa davanti, ma continua a sembrarmi troppo poco».



Anche Vito si è lasciato sfidare: «Siamo in un mondo in cui tutto passa, purtroppo anche la morte: prima in un “fraterno” interessamento, in un sentimento, e poi due minuti dopo in una totale indifferenza. Siamo capaci di tremare, di emozionarci davanti alle immagini cruente che passano ininterrotte sugli schermi delle nostre tv, e allo stesso tempo però, tre giorni dopo, è facile ridurre tutto a un “ah sì, ho sentito”, a un’informazione da ammassare nella nostra mente e da ricordare gli anni prossimi in un minuto di silenzio o in una giornata della memoria, come se fosse tutto normale, perché adesso invece c’è bisogno di scioperare. In fin dei conti facciamo finta di interessarci a ciò che accade intorno a noi, ma questo in fondo non ha nulla a che fare con la nostra realtà, col nostro quotidiano, con lo svegliarsi la mattina e prendere il pullman per andare a scuola. Però io voglio dare spazio alla domanda che mi è sorta guardando le immagini, i volti pieni di speranza dei giovani che si trovavano lì solo per caso, a quella inquietudine capace di farmi rimanere impietrito e tremante a mezzanotte sulla sedia. Che desidero io per me ora nella mia vita, tanto fugace che la potrei perdere improvvisamente? Per cosa vale la pena vivere la vita adesso? Che speranza c’è per me? È proprio questo il motivo per cui io sono stato uno dei pochi a entrare martedì, perché quei volti trucidati a freddo in un normale venerdì sera, chiedevano e chiedono una vita, e io non posso sprecare il tempo che ho a disposizione in ideali inutili, ma posso solo impegnarmi per vivere al meglio. Non abbiamo bisogno di analisi, ma di una vita, la stessa che quei volti ci chiedono, che ci apra una possibilità, perché altrimenti sarebbe stato meglio morire tra quelle vittime innocenti. Perché loro e non me? Forse non lo saprò mai, ma la cosa più importante è che non posso fare altro che cercare una speranza a cui aggrappare tutta la mia vita e testimoniarla, gridare al mondo che una speranza in tutto questo, tra le pallottole volanti in aria e tra i lanci di granate c’è, e proprio per questo vale la pena vivere ed essere rimasti in vita!». 

Marianna fa solo il primo anno, ma è commossa per quello che è accaduto: «Siamo tutti d’accordo sul fatto che quella avvenuta a Parigi sia una tragedia. Ma, tralasciando il fatto che è dovuta a un’ideologia sbagliata, che non ha niente a che fare con la religione, come fanno, tutti coloro che hanno sparato, ma in particolar modo chi ha venduto le armi, a sentirsi umani? Non si sentono minimamente in colpa per aver fatto in modo che tutto ciò accadesse? E non parlo solo di Parigi, parlo di tutte le guerre, anche quelle del passato: come fai a vivere? come fa la tua anima a percepire come una cosa normale una tragedia come questa? È ciò che accade nella nostra società: un’anima vuota, magari però con tanti soldi da utilizzare per colmare il nostro vuoto interiore. A mio parere questa è un po’ la logica che muove il mondo attuale. Un’altra cosa su cui ho riflettuto molto riguarda la televisione, che, da quando è accaduto tutto ciò, non ha mai smesso di parlarne, anche se nessuno sa mai niente se eventi come questi accadono in altre parti del mondo. Ma proprio perché eventi del genere accadono tutti i giorni, tutto ciò che possiamo fare è semplicemente prenderne atto. Iniziando a non avere paura di essere giudicati. Io lo vedo ogni giorno: persone che non possono esprimere la propria opinione, perché altrimenti vengono presi in giro, solo perché non è uguale a quella degli altri. Per non parlare della portata mediatica di Internet: immagini del profilo con la bandiera francese, ma dopo due giorni nessuno ne parlerà più. Insomma, sempre le stesse parole che non fanno altro che appiattire questo tragico evento».

Roberta coglie al volo l’occasione drammatica di questi giorni: «Il giorno dopo gli attentati a Parigi, tornando a scuola, ero fortemente scossa da ciò che era successo. La paura sembrava aver avuto la meglio su di me. È stato solo dopo l’inizio della lezione di storia che ho capito che non era così: la paura c’era, ma ancora più forte era la voglia di vivere. Guardare il mio professore lì per me mi ha rimesso nella realtà: io ero fortunata a poter fare lezione quella mattina e quella fortuna non potevo farmela scappare. Io che sono viva, devo vivere! Ho capito che quel sabato, come tutto il resto dei miei giorni, dovevo viverlo. Il mio professore è stato un richiamo alla realtà: mi si è attaccata addosso una affezione nei suoi confronti e nei confronti della mia vita. Io dovevo e devo vivere anche per le persone che avrebbero voluto e ora non possono più. Questo richiamo della realtà, a distanza di giorni, è ancora più forte: mi ha permesso di entrare martedì a scuola, perché gli uomini muoiono e io che sono viva non posso più sottrarmi alla vita. Non ho mai capito come in questi giorni perché Ungaretti, quando scrive Veglia e vede il suo amico morire, scrive “Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”».

(Valerio Capasa e gli studenti Annalisa, Vito, Marianna, Roberta) 

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