Partiamo un po’ da lontano e da questioni generali.
Ciò che prevale, nell’odierna discussione sull’alternanza scuola-lavoro, non è la critica all’istituto in sé quanto, piuttosto, la sottolineatura di rischi, incertezze, dubbi, difficoltà derivanti dall’imposizione dell’alternanza da parte della legge 107.
Dubbi che accompagnano tanti, per carità: alcuni appaiono più legittimi (la fretta, la quantità delle ore), su altri (le intenzioni propagandistico/ideologiche di governo e ministro) è più difficile ragionare perché anch’essi spesso mossi da premesse propagandistico/ideologiche e, come ben sapeva Hannah Arendt, le ideologie tendono ad emanciparsi dall’esperienza e dalla realtà. Quanto alle difficoltà, se la loro esistenza fosse condizione che di per sé impedisce la realizzazione di un’iniziativa, chi avvierebbe un’impresa, chi tenterebbe di realizzare una sperimentazione, una ricerca, un percorso innovativo, chi metterebbe su famiglia?
Ciò detto in linea generale, proviamo ad entrare nel merito della questione.
Chi scrive dirige un liceo classico e certamente, di fronte all’obbligo di far svolgere 200 ore di alternanza scuola-lavoro anche ai suoi studenti, qualche mancamento l’ha avuto. Se un ragazzo o una ragazza studiano moda o informatica, tutto sommato individuare un’azienda omogenea a ciò che stanno studiando non appare impresa insormontabile. Ma per ragazzi il cui pane quotidiano è latino, greco, filosofia e storia dell’arte, qual è il lavoro — e quindi l’azienda — la cui conoscenza/frequenza non costituisca una stolida sottrazione di tempo allo studio ma gli permetta, al contrario, una significativa integrazione dell’itinerario formativo?
La questione si complica ulteriormente se si considera che il liceo è, in percentuale elevatissima, trampolino per una carriera universitaria e che tale carriera non è detto mantenga l’indirizzo umanistico della scuola: dal classico, dal mio classico, gli studenti che scelgono medicina sono numerosi, e non pochi sono anche quelli che si indirizzano ad ingegneria, fisica, matematica. E dunque?
La risposta, più che immaginarla, l’ho dovuta ricordare.
Un paio d’anni fa, insieme al Liceo linguistico paritario “Sant’Orsola”, ad “Officine Culturali” (un’associazione che gestisce come bene monumentale il Monastero dei Benedettini, oggi sede universitaria e monumento menzionato dall’Unesco), al dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania e all’Istituto per i Beni archeologici e monumentali del Cnr, la mia scuola realizzò un progetto: si chiamava “ArcheoScienza — Laboratori e percorsi didattici di scienze applicate all’archeologia”. In poche parole, si trattava di questo: gli studenti da un lato approfondivano le conoscenze strettamente legate al loro curricolo (storiche, letterarie, artistiche) nello studio dei reperti antichi conservati presso l’università, dall’altro acquisivano specifiche conoscenze relative all’aspetto tecnologico e scientifico degli studi archeologici, infine entravano in contatto con i linguaggi e le pratiche museali.
Negli ambienti deputati alla creazione di un futuro museo archeologico fu realizzato un vero e proprio “cantiere” in cui gli studenti ebbero la possibilità di realizzare, insieme ai diversi esperti — tra cui anche i loro insegnanti! — un’attività multiforme (riorganizzazione degli spazi, riorganizzazione dei reperti secondo nuovi criteri museologici, definizione del piano di fruizione e degli strumenti di comunicazione). Il prodotto conclusivo fu la realizzazione dei pannelli illustrativi delle bacheche, redatti anche in inglese e in formato kids per i più piccoli, pannelli che — si badi bene — oggi sono ancora lì, ad incontrare i visitatori di un museo pienamente fruibile e funzionante.
Non si è trattato di un’esperienza di facile o breve realizzazione, né potrei misurare con certezza, almeno al momento, quanto abbia orientato le scelte successive degli studenti. Ma che sia stata un’esperienza non estrinseca rispetto all’esperienza scolastica e si sia mostrata capace di offrire una concreta e personale percezione della spendibilità lavorativa dello studio, è fuor di dubbio.
Dire “no”, ricorrendo all’idea di una scuola che “si fa solo in classe”, è assai facile. Rimboccarsi le maniche e lavorare è più rischioso, ma ne vale la pena.