Negli ultimi mesi dopo che le scuole hanno pubblicato i loro Rav (Rapporto di autovalutazione) comprendenti una sezione che definisce gli obiettivi di miglioramento, l’interesse per le prove Invalsi è cresciuto. Si sa che i dati provenienti dalle prove coprono 3 indicatori sui 47 totali del rapporto, ma certamente essi sono particolarmente significativi in quanto legati direttamente alle finalità della scuola cioè apprendere. Molte scuole già da diversi anni utilizzano i risultati e si interrogano sulle conseguenze, sul piano della didattica, di test che hanno al loro centro competenze dinamiche e processi cognitivi, e non semplicemente l’acquisizione di conoscenze statiche. Le scuole che finora hanno ignorato o addirittura hanno apertamente contrastato le misurazioni sentono ora comunque il bisogno di conoscerle e di prendere parte a percorsi di miglioramento. La richiesta di aiuto da parte delle scuole si intensifica, e in questi mesi le associazioni professionali (per esempio Diesse, alla quale partecipiamo personalmente) e singoli formatori ricevono richieste di accompagnamento e di formazione, così come previsto dalla direttiva ministeriale. A dispetto delle apparenze, l’impegno a migliorare (anche gli esiti delle prove Invalsi) è sentito e diffuso.
Prosegue intanto l’impegno dell’Istituto per migliorare la qualità e la robustezza statistica dei dati offerti, per esempio con la messa a punto di sistemi che consentano di avere dati di valore aggiunto reali. Fino ad ora le scuole hanno potuto paragonarsi con il campione nazionale o della propria area o regione (per le superiori, con informazioni aggiuntive presenti on line, anche con il tipo di indirizzo). I dati però erano “statici”, cioè relativi a una certa popolazione scolastica in un certo anno: la scuola può confrontare ogni anno il proprio livello rispetto alla media. Da qualche anno poi esiste un campione di scuole dello stesso livello socioculturale (per esempio per livello di istruzione e occupazionale dei genitori e numero di libri posseduti in casa) con il quale paragonarsi, in modo da depurare quanto più possibile i risultati dal fattore fortemente predittivo costituito dalla situazione culturale della famiglia d’origine, e isolare quello costituito dall’azione della scuola.
In realtà il contributo della scuola nel creare crescita delle conoscenze e dei livelli di apprendimento può essere meglio descritto se le prove vengono ripetute in entrata e in uscita. Attraverso l’ancoraggio delle prove fra loro si costruisce, con opportuni strumenti tecnici, un’unica scala metrica che consente due operazioni: il confronto longitudinale di una stessa coorte (es. una classe V primaria a distanza di anni, in III secondaria di I grado o in II secondaria di II grado), oppure il confronto nel tempo fra classi dello stesso livello (es. la classe V primaria in diverse annate successive).
Per questo l’istituto si sta attrezzando, con proposte sperimentali già attuate in parte in alcune regioni del Sud all’interno del progetto “Sistema Informativo Integrato e valutazione degli apprendimenti”. Esso prevede tra le altre cose la misurazione dei progressi degli apprendimenti nelle scuole, cioè lo studio diacronico sui dati delle prove standardizzate del Sistema nazionale di valutazione e della Prova nazionale, in modo da fornire a ciascuna scuola un’informazione circa l’efficacia delle soluzioni didattiche e organizzative adottate fra una misurazione e l’altra. La somministrazione della prova di ancoraggio è avvenuta anche in alcune scuole del Centro-Nord, per poter disporre di classi di controllo utili alla verifica di un’eventuale presenza di domande che possono avere un funzionamento differente nelle diverse aree del Paese.
Proseguono anche le attività formative dell’Invalsi nei confronti delle scuole delle quattro regioni dell’Obiettivo Convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), quelle dove i risultati delle prove sono più bassi e dove il tasso di propensione al cheating è più alto. Si è svolto a Napoli nei giorni scorsi il Seminario “La costruzione delle prove: metodi e tecniche per la promozione del miglioramento degli apprendimenti nelle regioni del Pon” rivolto a 150 insegnanti (75 di italiano e 75 di matematica) delle quattro regioni. L’obiettivo non è mai stato, per l’Istituto, quello di stabilire graduatorie fra scuole o fra le aree dell’Italia, ma di fornire i dati, mentre alle persone compete pensare la possibilità di prendere strade nuove.
Un aspetto tecnico come quello della misurazione del “valore aggiunto”, cioè lo scarto positivo fra condizioni in ingresso e in uscita da un percorso formativo, fa emergere indirettamente la finalità della scuola, che è quella di far crescere gli alunni, di dare loro, nel percorso scolastico, un di più non solo di sapere ma di capacità e di coscienza di sé. Pare strano, ma nessuna riforma induce un movimento dal basso negli insegnanti quanto il desiderio del bene: il bene dei propri studenti, la valorizzazione della propria professionalità e del proprio impegno quotidiano in classe, la ricerca delle soluzioni migliori, il desiderio anche di apprendere cose nuove su quello che si pensava di sapere già, per esempio cosa significa leggere e capire un testo, o porre un problema in termini di ragionamento matematico, o riflettere sulla lingua che si usa ogni giorno. Che sia così si vede dalla presenza di insegnanti che nel caso di Napoli volontariamente hanno impegnato anche il weekend, hanno posto domande di chiarimento e proposto problemi, si sono impegnati nell’assimilazione teorica e pratica dei criteri sottostanti i quesiti.
In questo caso la finalità, più che quella della lettura a volte ostica dei dati e del loro utilizzo, è quella di riflettere sull’insegnamento e sui modi per renderlo efficace. A nostro avviso, ciò che ha effetto positivo sull’efficacia è il desiderio di tantissimi insegnanti di cercare di dare il massimo ai propri alunni in termini di crescita umana e culturale.
Per chi fa il “formatore”, in questo o in altri casi, è importante offrire una prospettiva immaginabile e mettere insieme le persone a parlare del proprio lavoro, il che richiede baldanza e soprattutto l’esperienza che ciò possa realmente avvenire.
Analogamente dovrebbero essere pensati i piani di miglioramento del Rav inerenti ai dati Invalsi. Ci sembra che il miglioramento non dovrebbe coinvolgere solo i docenti delle materie direttamente coinvolte, né dovrebbe essere inteso come una serie di tecniche da applicare, tantomeno di somministrazioni a tappeto di prove simil-Invalsi. Semmai — appunto — innanzitutto dovrebbe voler dire riflettere come scuola sugli esiti restituiti, di individuare possibili cause, di condividere, prima di tutto, uno sguardo comune sulla classe. Per questo, forse, piuttosto che il dispiegamento di riflessioni in sede di dipartimento di materia — pur importante — si potrebbe tentare una cooperazione dei docenti a livello di consiglio di classe, dove dovrebbero rifluire le considerazioni emerse nei dipartimenti. Si tratta comunque di puntare non certo sulla prescrittività, che spesso si incancrenisce in burocrazia formale, ma sulla passione, la professionalità e la libertà dei docenti.