Il dato. La stampa nazionale ha concesso un certo rilievo alle statistiche del Miur che, analizzando il numero delle nuove iscrizioni alle facoltà universitarie, certifica un calo del 20% rispetto a 10 anni fa. Il dato dovrebbe preoccupare, constatazione mitigata dall’inversione di tendenza nella scelta della facoltà: coloro che hanno scelto aree scientifico-tecnologiche prevalgono, percentualmente ma di poco, su scelte orientate alle scienze sociali. Queste hanno registrato in dieci anni un calo dal 41 al 34%. 



Vengono offerte alcune ovvie interpretazioni delle cause del cambiamento segnalato, prima tra tutte la stagnazione economica che genera e si riflette nell’elevato tasso di disoccupazione giovanile. La scelta di facoltà che fanno riferimento a possibili lavori a sfondo tecnologico-produttivo sarebbe una risposta alla bassa propensione di enti pubblici e privati a offrire nuovi posti di lavoro nel settore terziario: la sensazione è che il paese, per necessità, dovrà, almeno in parte, re-industrializzarsi privilegiando professioni e impieghi rivolti ai settori economici primari, tendenza recepita da genitori e figli nel considerare la facoltà alla quale iscriversi.



Dentro al dato. Un dettaglio che si offre come spunto a una discussione che va oltre la cruda descrizione delle tendenze osservate, riguarda il calo decennale dal 42 al 27% delle matricole provenienti da diploma tecnico-professionale. La scelta di far diplomare i figli era tipica dei ceti proletari e piccolo-borghesi. Questi, nel medio periodo, si impegnavano a dare ai figli una professione, non rinunciando, se l’alunno era stato veramente bravo, a fargli fare l’università. L’accesso dei diplomati all’università fu concesso mezzo secolo fa e sembrerebbe sia stata una decisione da poco; in realtà si tradusse in uno degli ingranaggi che Salvo Intravaia, di Repubblica, ritiene faccia funzionare “l’ascensore sociale”: il sogno delle classi povere di vedere i propri figli laureati occupare posizioni dirigenziali. Per questo c’è qualcosa di negativo quando i diplomati tendono ad abbandonare l’idea di laurearsi. E’ come se optassero per un futuro minimale, e cioè di lavorare da subito, forse per aiutare la famiglia condizionata dalla crisi economica ancora in atto. Come conseguenza si provoca, se pur in modo poco recepito dai più, una lesione sia al diritto allo studio, sia ai rapporti sociali tra cittadini a cui dovrebbe essere concessa la parità di diritti e doveri. 



Un segnale positivo, pur se in contrasto con la precedente conclusione: i giovani che decidono a favore di una laurea cercano, preferenzialmente, un lavoro che produca qualcosa di reale ed abbia solide basi tecnologiche. Parliamo di una tendenza, che tuttavia induce a un moderato ottimismo, specialmente considerando che la società in cui viviamo sembra a corto di etiche e significati della vita e del senso della necessità di un percorso nuovo a cui ciascuno di noi deve contribuire con le opere. 

Che si creda — o si ritorni a credere — in un futuro positivo, senza dover accettare i richiami alla vita “di una volta” e il soffocante edonismo dei media, richiama la visione del mondo degli utopisti, da Platone, a Tommaso Moro, a Francesco Bacone a Tommaso Campanella e a tanti altri che non hanno avuto il timore di descrivere le società ideali che avrebbero voluto costruire.

Un’ultima osservazione. Il benessere economico di una nazione moderna dipende in larga parte dalla capacità di sviluppo industriale che sa mettere in atto. Questo rimanda alle dinamiche innovative che vengono adottate e quindi al sostegno alla ricerca scientifica universitaria e della istituzioni pubbliche e private di ricerca, nonché alla loro capacità di formare il personale necessario all’industria. Ma non è tutto: isole di sottosviluppo artigianale e agricolo possono permanere anche in situazioni di accentuata industrializzazione. Un esempio è la Lombardia, dove larghi comprensori agricoli dedicati alla produzioni di commodities come mais, latte e frumento denunciano condizioni locali di sottosviluppo, almeno sociale: fabbricati fatiscenti, addetti a basso livello di acculturazione, assenza di capacità imprenditoriale, innovazione praticata solo per interventi di meccanica agraria. Per intervenire su queste situazioni servono scuole professionali in grado di formare il personale necessario, un compito formalmente delegato ad enti regionali e provinciali raramente in grado di incidere sulla realtà. La possibile discussione di questo tema precede quella delle scelte universitarie nella loro premessa all’inserimento nel mondo del lavoro. Ma non per questo è meno importante, specialmente se si considera che uno stato criptico di sottosviluppo locale ha profonde implicazioni sociali.