GAINESVILLE, Florida — Scrivo sollecitato dal bell’articolo di Raffaela Paggi sul Piano nazionale della scuola digitale. Trovandomi negli Stati Uniti da tre anni e mezzo, infatti, quella domanda del genitore di ritorno dall’America (è una scuola Apple o una scuola Microsoft?) con cui l’articolo iniziava ha suscitato in me alcune riflessioni che qui ripropongo. 



C’è qualcosa di affascinante nella lingua inglese, che la rende particolarmente versatile ed espressiva. Mi riferisco all’assoluta libertà, in particolare nell’americano, di giocare con le parti del discorso trasformandole in nomi, aggettivi o verbi, senza bisogno di alcuna modificazione morfologica. Espressioni come You can google it! Suona molto meglio di un improbabile, ma forse già comune, puoi googlarlo. Negli anni passati qui in America ne ho sentiti molti, alcuni ricalcati sul modello citato (I don’t buy something in a store, I amazon it), altri ben più divertenti ed espressivi (ricordo un barbecue con alcuni amici, dove un marito si rivolse alla moglie con un affamato: Burger me!). Quanto più si entra in una lingua, quanto più la nostra mente si apre ad abbracciare un nuovo modo di pensare. Così più volte mi sono imbattuto in situazioni in cui, di fronte ad una proposta di qualsiasi genere, una pizza o una gita in spiaggia, la lingua americana mi ha restituito un fenomeno linguistico degno di nota. Con la stessa libertà di cui sopra, i miei interlocutori hanno giustificato il rifiuto con un’espressione del tipo: No, thanks, I am not a pizza person. A tradurre letteralmente, la fantasia italiana costruirebbe il simpatico siparietto di un uomo-pizza, o una donna-spiaggia, come unici compagni plausibili di tali avventure. Più frustrante, e forse anche più grave, quando uno studente giustifica la sua incapacità di prendere appunti, o di leggere un libro piuttosto che guardare video su youtube, con la stessa espressione: You know, mister, I am not a book person, I am more a picture person. Questa volta alla mente del povero insegnante si affaccia l’uomo-libro, magari un po’ impolverato e avvolto di ragnatele, che cerca di combattere contro l’uomo-immagine, ben più moderno e al passo con i tempi. 



La domanda del genitore, che non a caso aveva passato qualche anno in America, “Siete una scuola Microsoft o una scuola Apple?”, mi ha fatto ripensare a questa bizzarria linguistica, una sorta di ipertrofia semantica che l’estrema sinteticità dell’inglese propone come identità garantita dalla copula del verbo essere. In altre parole, così come l’uomo a cui piace la pizza, diventa un uomo-pizza, così la scuola che usa un certo sistema operativo diventa scuola-Apple o Microsoft. Il fenomeno è problematico quando si parla dell’individuo, che è spinto a predicare sé identificandosi con le diagnosi, sempre più comuni, o con le cose che fa o che gli piacciono. Ho avuto studenti che placidamente mi spiegavano che non potevano stare attenti ma dovevano alzarsi e saltellare per la classe, perché, dicevano, soffrivano di qualche deficit di attenzione, proclamato con I am ADD (Attention Deficit Disorder), you know? 



Da insegnante ho sempre desiderato che la scuola e il rapporto con noi adulti fosse per loro la possibilità di scoprire che essi non sono ciò che fanno, i loro gusti o le loro diagnosi. Sono persone. I am a person, dovrebbe essere un enunciato assoluto, il cui contenuto di consapevolezza la scuola dovrebbe nutrire, ma a cui si dovrebbero attaccare altre strutture sintattiche che l’inglese-americano rende parte nominale del predicato. Non esistono pizza-persons, soccer-persons, yellow-persons (giuro mi è successo anche con i colori…). Esistono persone. 

Allo stesso modo, quando predichiamo della scuola, occorre stare attenti al linguaggio che usiamo. Non esiste una scuola Microsoft o una scuola Apple. Così come, che il ministero si metta l’animo in pace, non esiste una scuola digitale. Esiste la scuola. Della scuola si predicano i contenuti, non gli strumenti. Per questo c’è il classico, lo scientifico, il professionale e via dicendo. Tutti questi aggettivi sostantivati predicano i contenuti della sostanza che è la scuola. 

Ricordo un amico, prima che partissi per gli Usa quattro anni fa, mi disse: “Vai a vedere quello che noi non dovremmo diventare”. L’osservazione, non particolarmente ottimista, aveva del vero dalla sua. Vorrei allora offrire alcune esperienze che ho vissuto nel mondo dell’educazione, non solo per mettere in guardia il vecchio continente dalle derive tecnologicocratiche nel mondo della scuola, ma anche per trattar del ben ch’i’ vi trovai.

(1 – continua)