Probabilmente sì, Babbo Natale esiste, come facilmente immaginare. Dico «probabilmente» per dire «con tutte le caratteristiche della provabilità», ossia con la certezza di ciò che è provabile, certificabile con prove, dunque pienamente consapevole delle responsabilità che si devono mettere in conto nelle affermazioni impegnative, come quelle sulle certezze e l’esistenza dei fatti storici. 



O quando si domandano parole che siano con ogni evidenza anche dei fatti. Come insegnava ai suoi studenti Agostino di Dacia, più o meno ottocento anni fa, la littera gesta docet, il significato letterale delle parole mostra, rende cioè visibile la dimensione dei gesti, ossia dei fatti avvenuti che hanno portato un significato, che lo hanno fatto accadere; in altri termini, la dimensione letterale delle parole è quella porzione — finita, determinata, conclusa — di significato che indica le res gestae, le cose compiute, le realtà accadute, ma non è tutto il significato che le parole, come i fatti, possono illustrare. 



Le parole, come le immagini, e a differenza dei meri fatti, hanno la capacità di far vedere anche ciò che non è accaduto, ma potrebbe o sarebbe potuto accadere, come ad esempio i nostri desideri, oppure ciò che di un fatto accaduto ancora manca perché possa dirsi meglio realizzato, a misura del suo ideale. Una simile interpretazione del linguaggio presume quindi un rapporto di analogia tra lettera del testo e dimensione storica della realtà, verificabile e provabile, su cui si poteva fondare con buona certezza l’immensa cattedrale di ulteriori significati di cui si compone un testo. 



Guai, insomma, a raccontare bestialità ai bambini: Babbo Natale esiste, e non è solo il papà buono che porta i regali sotto l’albero. E non rappresenta, si capisce, neppure il mieloso, o mellifluo, sentimento di bontà che cola dai cartoni della Disney & C., e dalle fiction, e dalle pubblicità dei panettoni. La sua esistenza, e quindi la sua verità, infatti, non consiste certo nei segni materiali che la mostrano e la vorrebbero illustrare, ma risiede innanzitutto nella forma e nell’ordine delle cose cui proprio tali segni alludono: qualcuno potrebbe dubitare dell’esistenza di un ordine o di un disordine nelle cose, ad esempio dell’ordine o di un disordine dei libri messi su uno scaffale? Eppure nessuno vede direttamente, im-mediatamente, l’Ordine o il Disordine dei libri, ma solo i libri che lo indicano, ossia che lo rappresentano e lo rivelano in una sua manifestazione. L’ordine esiste, ma non è visibile senza cose che lo significano, ossia che lo rivelano. 

L’aveva già osservato assai bene Eraclito, quando in un suo celebre frammento scriveva che «la Natura ama velarsi»; la Natura, ovvero l’Origine, vuol dire il significato della cosa. Il significato di una cosa ama farsi conoscere attraverso dei segni visibili, ossia dei veli, non perché voglia nascondersi, al contrario proprio perché ama manifestarsi. E poiché ama manifestarsi a uomini che vedono i significati attraverso segni sensibili e fisici, attraverso i linguaggi, l’Origine si mette tali veli. 

La sua invisibilità, pertanto, non ha nulla a che vedere con la sua inesistenza. Semmai, l’invisibilità è proprio da intendersi come la garanzia del suo possibile, eterno manifestarsi, ossia rendersi visibile e conoscibile nei diversi contesti e nei diversi tempi storici, e nelle più variegate forme. Nessuna nostalgia, in ogni caso, né per la filosofia antica e neppure per la semiotica dell’evo medio: ricordo quel che diceva, non più tardi del recente secolo scorso, il poeta Lars Gustaffson: “Immaginiamoci una corda. Facciamoci un nodo su di essa, uno di quei nodi che si possono far scorrere lungo la corda. Quando la nostra corda di canapa è finita, congiungiamo la sua estremità ad una corda di cotone, e continuiamo a far scorrere il nodo lungo la nuova corda. Che cos’è il nodo? Evidentemente non è la corda. Il nodo, in verità, è qualcosa di invisibile. Per renderlo visibile occorre una corda. Nel flusso della vita ci sono di questi nodi. Il poeta fornisce la corda.

L’immagine di Babbo Natale, come una corda, ci fa vedere il nodo dell’amore come dono, ci fa vedere l’esistenza e, nella sua piccola parte, anche una piccola parte del volto di Agape, che di generazione in generazione si manifesta, ad esempio, con l’amore dei genitori per i figli, nelle molteplici dimensioni del dono. Certo, piuttosto che Babbo Natale, l’invenzione-finzione del presepe medievale fatta da san Francesco è un’altra corda che prova a farci vedere quel nodo amoroso con assai più felice chiarezza e precisione. Ciascuno chiuda gli occhi, provi a vedere quel che riesce, ora, e decida il confronto tra i due.

Si intende, perciò, che l’unica prova della non esistenza di Babbo Natale andrà cercata nella non esistenza di amore, o nell’inesistenza del significato di amore che si dona — o se si vuole nella dimostrazione della non esistenza dei nodi — fino all’inesistenza dei gesti che la figura di Babbo Natale compendia. La distorta visibilità dei nodi, ossia la cattiva comprensione dei significati, dipenderà piuttosto dal cattivo uso delle corde, o dell’inappropriata composizione dei “veli”, ossia dei segni che si usano per renderli visibili; è nell’inadeguata arte di fingerli, che in latino significa appunto dare forma, che i significati potranno allora essere, invece che rivelati, occultati, e quindi davvero “velati”. Tuttavia, senza le finzioni, non si potrebbe mai accedere alla verità delle cose, ai loro significati. Almeno, non per noi uomini. 

Così, dunque, la verità delle cose si rivela nella sua finzione, nei linguaggi che  rappresentano con la materia e le forme tutta la infinita parte della realtà invisibile, tutte le sue infinite possibilità; o con i gesti della storia, che in analogia con le parole, possono mettersi al servizio dei significati, e rivelarli, oppure nasconderli, negarli, occultarli, fino a far credere, anche con i propri gesti nella vita, che Babbo Natale non esiste.