Il califfo al-Ma’mun ebbe un sogno: vide dinanzi a sé «un uomo dalla carnagione chiara, il colorito rossastro, la fronte spaziosa, le sopracciglia unite, gli occhi azzurro intenso». Stava «seduto in trono» e aveva «fattezze gentili». «Chi sei?», domandò il califfo. «Sono Aristotele». Al-Ma’mun è «felice di essere con lui», e subito lo interroga. «O filosofo, che cos’è il bene?». «Tutto ciò che è bene secondo l’intelletto». «E poi che cos’altro?» «Tutto ciò che è bene secondo la legge religiosa». «E poi che cos’altro?» «Tutto ciò che è bene secondo il popolo». Il califfo insiste: «E poi che cos’altro?» «Non c’è nient’altro». 



Il sogno risale al IX secolo: al-Ma’mun segnò una svolta nella centralizzazione del potere del califfato, e osò contendere ai Bizantini l’eredità dei Greci. I veri continuatori del magistero ellenico — sosteneva — non erano i cristiani, ma i musulmani, che infatti traducevano in massa le opere greche. Il sogno è costruito a tavolino (ne circolano anche altre versioni), ma il messaggio dell’élite islamica che lo ha concepito è chiaro: prima della legge religiosa, viene l’intelletto. E l’intelletto parla greco, nelle vesti di Aristotele.



In tutta evidenza, l’attuale sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi ha idee diverse. Né si direbbe che Aristotele visiti in sogno i seguaci dell’Isis che hanno fatto strage a Parigi. C’è un nesso che unisce l’un califfo all’altro? E che cosa potrebbe suggerire allo storico che abbia a cuore, per riprendere una formula mai troppo logora, le sorti della cultura occidentale?

Suggerisce una conclusione che non vuole essere provocatoria, ma fattuale. La strage di Parigi dovrebbe mostrare all’Occidente che il bene più prezioso della propria scuola è l’esercizio della ragion critica. E la critica, l’esercizio di un intelletto che stia sopra a tutto, anche alla legge religiosa, è la filologia. Filologia vuol dire che ogni testo, anche un testo autorevole fino alla «sacralità», può, e anzi deve, essere soggetto a esame, sottoposto a critica, interpretato storicamente. Sono stati i Greci a insegnarlo: applicandolo innanzitutto ai propri testi. Si prendano i primi cinque versi dell’Iliade. Si può immaginare un’opera più autorevole per un antico greco? Eppure Protagora notava che già nei primi due versi Omero aveva compiuto due errori: «canta, o dea, l’ira funesta del Pelide Achille». Innanzitutto a una dea non ci si rivolge con un imperativo («canta!»), cioè con un ordine: semmai con una preghiera. E poi la parola «ira» è femminile: mentre l’ira è un sentimento maschile. Noi possiamo anche sorridere di queste obiezioni (sorrideva anche Aristotele): e tuttavia la prima distinzione grammaticale dei generi dei sostantivi (maschile, femminile e neutro), così come la prima riflessione sui modi dei verbi (l’imperativo è diverso da un ottativo) nascono qui.



Facciamo un passo oltre: al verso 5 il filologo alessandrino Zenodoto credeva che il testo originale recasse la parola daita, a indicare che i cadaveri prodotti dall’ira di Achille erano diventati «pasto» per cani e avvoltoi. Aristarco dà torto a Zenodoto, e gli spiega che al tempo di Omero quel termine si usava solo per il pasto degli uomini, non degli animali. La filologia nasce così: riflettere criticamente sul testo del Poeta, chiedersi che cosa possa davvero aver scritto, interpretarlo storicamente. Alla base di tutto questo c’è un principio dirompente: e cioè che anche il testo di Omero, come ogni testo al mondo, è un prodotto umano, soggetto a errore, a mutazione nel tempo. Sono pronte le religioni ad applicare questo ovvio principio ai loro testi fondanti?

Il cristianesimo lo ha fatto la prima volta nel III secolo. Nel Vangelo di Matteo (27, 9) si cita un versetto «del profeta Geremia». Ma è sbagliato: quelle parole non sono di Geremia, ma di Zaccaria. Origene se ne accorse, e si chiese se non si trattasse di un «errore di scrittura». Era una rivoluzione: anche il Vangelo poteva sbagliare. In quello stesso vangelo la parabola del giovane ricco è diversa in un punto sensibile rispetto agli altri Sinottici. Origene dice ai suoi allievi: se sospetto che vi sia un errore mi giudicherete empio. Ma voi sapete che tra i manoscritti dei Vangeli c’è molta discrepanza. Dunque forse non sono empio io: forse c’è davvero un errore. Nasce la filologia biblica.

Le ortodossie di ogni tempo cercheranno ciclicamente di soffocare questi spiriti liberi (Origene stesso è stato avviato all’inferno), e la storia moderna dello studio filologico del Nuovo Testamento è costellata di anatemi, repressioni, esili, carcerazioni e condanne d’ogni sorta. Oggi però, dopo questi traumi (e pur con la rumorosa protesta di certe frange oltranziste), il principio della lettura filologica dei testi sacri è inestirpabile dal cristianesimo, ancorché la liceità della critica testuale applicata alla Bibbia sia stata ufficialmente riconosciuta dalla chiesa cattolica soltanto in piena seconda guerra mondiale, con Pio XII (Divino afflante spiritu, 30 settembre 1943). Anche il mondo ebraico, almeno nella sue forme più aperte e ragionevoli, riconosce questa legittimità, e l’edizione critica dell’Antico Testamento ebraico si avvale oggi di tutti i metodi sperimentati dalla filologia classica.

Nel mondo islamico la filologia, questa filologia, non pare ancora avere spazio. Un’edizione critica del Corano, che ha una storia redazionale quanto mai affascinante, che è stato per anni trasmesso solo oralmente e poi canonizzato da un altro califfo (il terzo: ‘Uthman ibn ?Affan), è ancora una chimera. Ma soprattutto manca una tradizione consolidata di studi storico-critici, che disancori il testo dalla sua confessionale, immanente atemporalità e lo collochi nella storia. I primi vagiti di una lettura storico-critica dei testi normativi dell’islam sono recentissimi, flebili, e promanano per lo più dalle cattedre di arabistica delle università occidentali.

Chi sottovaluta questi aspetti non intende che cosa possa significare, a partire dal testo fondativo, il riconoscimento dell’esercizio critico in tutti gli ambiti in cui agisce una religione.

Di qui un pensiero facile facile. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle e con il secondo, funestissimo mandato di George W. Bush, la parola d’ordine dell’Occidente è stata una: «esportare la democrazia». Il fallimento, come tutti sanno, è stato totale. È ora di cambiare il prodotto. L’imperialistica economia occidentale provi a esportare un altro suo bene: la filologia. Provoca meno morti, e sulla distanza rende meglio.

Naturalmente, per esportare un bene all’esterno, occorre che sia ben curato all’interno. Occorre che ci creda chi lo esporta. Sia dunque questa la nuova parola d’ordine: importare, riportare, la filologia nelle nostre scuole. Liberare lo stucchevolissimo dibattito sull’opportunità di studiare il greco e il latino dai suoi ingombri più pretestuosi. Insegnare ai nostri studenti che imparare le lingue classiche significa ritornare alle fonti della libertà di pensiero. Tornare insomma a credere nel pensiero critico che Greci e Romani hanno insegnato al mondo: anche ai califfi del passato, nei loro notturni incontri con Aristotele.

Questo dovrebbe dire e fare chiunque parli (o blateri) delle nostre radici, della nostra identità, dei nostri valori. Perché la profezia è sicura: giorno verrà in cui dovremo esportare la filologia.

Non v’è altro millenarismo che siamo pronti a riconoscere. Dunque prepariamoci.