Un recente sondaggio condotto da Ipr Marketing ha individuato Poletti come il ministro che riscuote la maggiore fiducia nel Paese. E’ un risultato certamente inaspettato: si tratta di uno dei ministri meno renziani, uno dei più superati nel processo di scrittura delle riforme (non è un segreto che la regia del Jobs Act fosse a Palazzo Chigi e che la sfortunata scelta del presidente Inps sia stata imposta dal premier) e uno dei meno mediatici per modi e aspetto.
D’altra parte, però, questo risultato sembra testimoniare una diffusa, sebbene silenziosa, condivisione delle sue recenti dichiarazioni: la prima relativa all’importanza di laurearsi in corso più che con il massimo voti; la seconda a riguardo del superamento del concetto di ora-lavoro.
Sulla seconda esternazione il Centro Studi Adapt ha appena promosso un sondaggio e una raccolta di contributi che permettono di affrontare senza pregiudizi un argomento tanto delicato quanto attuale. Il futuro del lavoro sarà probabilmente sempre più “a risultato” e sempre meno “a processo”: il ripensamento del sistema salariale sarà inevitabilmente connesso alle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro.
Decisamente più attuale, ma anche meno originale, la prima provocazione. Meglio laurearsi fuori corso con 110 o in corso con 95? (Attenzione, 95 sembra un buon voto, ma è un dato molto sotto media: non si dimentichi che la media dei voti di laurea – triennale, specialistica e a ciclo unico – è 103).
Gli italiani sono cresciuti guardando “Lascia o Raddoppia” e i giochi delle buste (“busta A o B?”). In questi casi una risposta è giusta e l’altra sbagliata. Non è sempre così, però. Il quesito del ministro, per esempio, è mal posto. Tralasciando il qualunquismo della risposta “in corso con 110”, la scelta tra le restanti due opzioni è da contestualizzare nella situazione della nostra formazione universitaria: entrambe le risposte possono essere corrette o errate.
Come mai il giovane che ha preso 110, e magari anche la lode, è andato “fuori corso”? Questa è forse la domanda più rilevante per centrare il problema. “E’ andato fuori corso per studiare meglio e riuscire a prendere 110”. Come a dire: è rimasto parcheggiato uno o due anni in più in università senza fare altre esperienze rilevanti, solo ai fini del voto. In questo caso, molto meglio il 95 in corso. Quando il “superlaureato”, infatti, impatterà col mercato del lavoro andrà in competizione con un giovane coetaneo che certo ha 15 punti di laurea in meno, ma ne ha molti di “esperienza” (di vita e lavorativa) in più. A meno che entrambi vogliano lavorare in società di consulenza di “quelle giuste” che guardano più al merito scolastico che a quello umano, per tutte le altre soluzioni è probabile che un buon selezionatore propenda per il 95, temendo l’approccio teorico e l’inesperienza del 110, oltre che una possibile più alta considerazione di sé (anche in termini economici) proprio in ragione del voto.
La situazione prospettata è assai realistica: i giovani universitari italiani vivono poche esperienze lavorative durante gli studi. Nell’esempio proposto dal ministro sia il 110 che il 95 hanno iniziato a lavorare solo dopo il titolo e il vantaggio del secondo sta (solo) nell’avere iniziato prima e quindi avere più esperienza.
Molto diversa sarebbe la situazione nel caso uno dei due avesse integrato esperienze di formazione e lavoro durante gli studi. Costui avrebbe una marcia in più, in entrambi i possibili casi: 110 in ritardo a causa di rilevanti esperienze lavorative o in corso, ma con voto più basso (es. 95) perché condizionato dal tempo dedicato al lavoro. Entrambi questi profili sono molto più competitivi di quelli presentati in precedenza. E’ ormai un ritornello frequente quello della importanza delle soft skills, delle competenze trasversali, del problem solving, del decision making eccetera. Se queste saranno le competenze sempre più ricercate nei lavoratori del futuro (quantomeno quelli high skilled) non si può pensare di farle emergere con l’apprendimento di nozioni e la lezione frontale d’aula: le competenze trasversali vanno allenate nell’esperienza, nella sperimentazione pratica di quanto si apprende teoricamente, nella situazione reale e, quindi, anche (se non soprattutto) nel e mediante il lavoro.
La sfida della nostra università è proprio questa: riuscire sempre di più a integrare teoria e pratica perché al termine degli studi i laureati siano occupabili in quanto integralmente formati (e non perché colmi di nozioni o addestrati a compiti specifici). Ora la domanda è per la collega di Poletti: la nostra università è capace di vincere questa sfida?
@EMassagli