Anche i ministri della Pubblica istruzione scrivono le loro letterine a Babbo Natale (o, se si preferisce, alla Befana): sono gli Atti di indirizzo, dichiarazioni piene di buoni propositi, che non escludono di meritare talvolta — come vedremo — cenere e carbone.

Gli Atti di indirizzo delle varie personalità che in questi anni si sono succedute al timone di Viale Trastevere possono apparire ai più uno stanco e quasi sconosciuto rituale. Si è soliti pensare, non del tutto a torto, che la politica scolastica la faccia il governo in carica dettando il quadro di riferimento, piuttosto che il singolo ministro, responsabile al massimo di sistemare i tasselli entro la cornice. 



La Buona Scuola è appunto una di queste cornici che ha il limite di essere extra large, con tutte le conseguenti aspettative che ha aperto magari deludendone alcune, mentre nel recente passato le maglie erano decisamente più strette, vedi la famosa “razionalizzazione” delle risorse umane imposta alla scuola dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, risalente al Governo Berlusconi IV. 



Due placche continentali, corrispondenti a due ambiti di pensiero, si sono mosse in questi anni l’una contro l’altra: restringere o allargare? In mezzo al terremoto si collocano i ministri, il cui compito è appunto di svolgere il compito, salvo indicare i loro desiderata mediante gli Atti di indirizzo, una cosa a metà tra una road map e un libro dei sogni. Una specie di diario segreto, in parte destinato ad essere vanificato dalla “ragione di Stato”, in parte anche ad essere attuato con il consenso del governo che poi si arroga, lui, tutto o quasi il merito delle eventuali novità introdotte nel panorama della scuola. In ogni caso questi documenti sono indicativi dell’accento culturale e politico che ogni singolo responsabile del dicastero che amministra la scuola ha inteso dare alla propria funzione, per cui vale a pena metterne a confronto alcuni. Almeno quelli degli ultimi anni, tenendo conto che dal 2008 la Pubblica istruzione è stata riannessa all’Università e ricerca.



L’ultimo testo programmatico in ordine di tempo, riguardante il 2016 e pubblicato all’inizio di dicembre 2015 dal ministro Stefania Giannini, è breve, scheletrico, quasi intessuto di inquietudine, posto che sia possibile attribuire sentimenti a un pezzo di carta. Accenna all’inizio ai grandi cambiamenti e alle sfide a cui gli studenti devono rispondere oggi. L’offerta formativa della scuola, ecco la prima conseguenza, deve essere completamente aggiornata (“ripensare i programmi e i percorsi di insegnamento”). La seconda conseguenza è che gli insegnanti (brutalmente definiti “coloro che sono responsabili del trasferimento delle conoscenze e delle competenze”) saranno obbligati a formarsi in maniera adeguata e permanente. Domina tra le righe un clima rigido, prevalgono gli imperativi categorici, molto del futuro della scuola è affidato alle procedure uniformanti (scuola-lavoro per tutti; digitalizzazione della didattica; estensione della valutazione) e meno alle reali esigenze dei soggetti che la animano.

Tutt’altra linfa scorreva tra le pieghe dell’Atto di indirizzo per il 2015, in capo al medesimo ministro, che si collocava all’ombra della Buona Scuola riprendendone alcune tematiche. Al primo punto era posta la questione dell’edilizia scolastica che poi ha trovato sbocco nella creazione, a cura del Miur, dell’Anagrafe dell’edilizia scolastica (agosto 2015). Dal censimento delle scuole risulta che solo il 39% degli edifici scolastici è in possesso del certificato di agibilità/abitabilità perché per il 50% costruiti prima del 1971, anno in cui il certificato è stato reso obbligatorio dalla legge. Ma questa è un’altra storia. Per tornare al piano programmatico 2015, occorre rilevare le garbate espressioni questa volta riservate agli insegnanti: “Il corpo docente rappresenta la risorsa più importante per il sistema scolastico”. Da questo presupposto si intendeva partire per ridurre il precariato (poi effettivamente la Buona Scuola lo ha fatto pur con tutti i limiti delle fasi A, B, C); formare nelle scuole l’organico funzionale; rivedere le modalità di accesso all’abilitazione all’insegnamento, in modo da conferirla solo a chi “dimostri in aula di avere la preparazione e l’attitudine all’insegnamento”. Altre piacevolezze sono sparse nel documento in riferimento all’autonomia degli istituti scolastici, alle discipline storico-artistiche, al contrasto della dispersione scolastica. 

Come si spiega il passaggio dalla carezza allo scappellotto che sembra profilarsi tra i due Atti dello stesso ministro? Semplice: di mezzo c’è stata la traduzione in atto della Buona Scuola con le difficoltà e le proteste che ha incontrato nel tentativo di raccordare mondi solitamente dissonanti: convogliare il precariato nell’organico di istituto, far dialogare la scuola e il lavoro, aprire la scuola al territorio.

Per cui, o mangiare questa minestra o saltare dalla finestra!

Il tema del rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro era ritenuto centrale anche dal ministro Maria Chiara Carrozza, che nel suo Atto di indirizzo per il 2014 confessava che “la cerniera studio/lavoro in Italia è un punto critico ma costituisce l’elemento decisivo per conseguire risultati visibili nel campo dell’avviamento al lavoro qualificato”. Tra le priorità nella lista di questo breve ministero (nove mesi) troviamo ancora tanta edilizia scolastica, molta digitalizzazione e un rimando, ovvio, al decreto “L’Istruzione riparte” (settembre 2013; convertito in legge nel novembre dello stesso anno) che stanziava per la scuola 450 milioni di euro. Molti di questi sono stati spesi per l’edilizia scolastica e una fettina anche per i progetti in materia di apertura delle scuole e prevenzione della dispersione scolastica (15 milioni).

Si sa che tra le ultime due signore ministro dell’Istruzione non è corso buon sangue, a causa della proposta di una costituente della scuola, lanciata dalla penultima inquilina di Viale Trastevere e bocciata dall’ultima. Ad ogni modo entrambe si collocano nell’area dell’allargamento dei cordoni della borsa. 

Ben altro contesto quello in cui fu destinato a muoversi il precedente ministro Francesco Profumo, che nell’Atto di indirizzo per il 2013, quando ormai era uscente dopo quindici mesi di regno trascorsi sotto l’incubo dello spread, progettò la riduzione di un anno della durata del corso di studi, onde adeguare l’Italia agli standard europei (e risparmiare in numero di cattedre e docenti, appunto). Un’idea non peregrina, ma poi lasciata cadere. E arriviamo così al ministero di Mariastella Gelmini (2008-2011) il cui ultimo Atto di indirizzo per il 2012 risentiva della categoria più in voga durante la sua complicata gestione: razionalizzazione. Ebbene sì, razionalizzare e contenere i costi per ottimizzare l’offerta formativa. E il mondo scolastico si rivoltò, ma poi è sopravvissuto apprendendo l’arte virtuosa dell’arrangiarsi. 

Sembra di parlare di un’era geologica remota, tanto le nuove sponde cui si è approdati appaiono rassicuranti. O forse no, perché in fondo Babbo Natale e la Befana non esistono e quello che resta siamo noi. La scuola è anzitutto un problema di soggetto che vive. Purché ci lascino vivere.