Cosa sta succedendo in questi giorni nelle scuole italiane? L’immissione in ruolo di quasi 50mila insegnanti, quelli della cosiddetta fase C. In pratica, dovevano esserci 100mila assunzioni ma 100mila cattedre non esistevano. E allora si sono inventati l’organico di potenziamento. Calcisticamente, la panchina lunga. Vale a dire: le scuole hanno a disposizione degli insegnanti in più; altri 50mila insegnanti non sono più precari; e decine di migliaia di classi devono cambiare insegnante. 



Se la Buona Scuola aveva l’intento di eliminare la supplentite, riesce invece — si spera solo per quest’anno — a moltiplicarla: le classi che avevano un supplente, dopo un po’ di anarchia, avranno un nuovo supplente, e poi rientrerà il titolare: tre insegnanti in un solo anno. Ancor più paradossale è che l’insegnante che fino all’altro giorno era precario aveva una cattedra e delle classi, mentre adesso che è di ruolo non ha più cattedra né classi, e inizia a fare il supplente. Supplente nel senso peggiore del termine: un’ora qua un’ora là, dove manca qualcuno. Tappabuchi, para-mobbing. Brillano gli occhi ai vicepresidi, a cui non sembra vero di avere tutte queste tessere da incastrare nel puzzle delle ore scoperte. 



Certo è che sarebbe già parecchio se il dirigente e il docente potenziatore si parlassero serenamente presentando i bisogni degli alunni e le potenzialità del docente. Valutando un curriculum, per esempio: che invece nelle scuole rimane un tabù, e presentarlo sembrerebbe finanche un gesto spocchioso, come se qualcuno volesse rimarcare una qualche sua differenza rispetto agli altri. Gli insegnanti sono tutti uguali, ci ha insegnato contro ogni evidenza il catechismo sindacale. Pare non sia così semplice dirsi “so fare questo”, “sarebbe bello fare quest’altro”: “noi abbiamo bisogno di un terzino”, sentenzia il mister, e il calciatore avrà poco da rimuginare fra sé e sé che lui ha sempre fatto il centravanti, e anche parecchi gol. Serve il terzino. Amen. Ci vorrebbe un mister intelligente. Un preside-sceriffo, oserei dire. Perché l’intelligenza non può darla una riforma, ma le condizioni per usarla sì: e un preside-sceriffo-intelligente, dotato di poteri dalla normativa e di intelligenza dal cielo, potrebbe anche ritenere, per esempio, che quell’insegnante sta lavorando bene in quelle classi, e che perciò è più adeguato farlo rimanere lì dov’è, anziché spostarlo in un’altra scuola a fare non si sa cosa né in quali orari. Un preside-sceriffo-intelligente potrebbe sentirsi anche lui trafitto dalla domanda di una ragazza del primo anno che scrive al suo insegnante che deve andar via a fine novembre: «Ma chi si distingue dalla massa e ci affianca nel nostro percorso e ci aiuta a ritrovare quella passione?». La scuola, se non risponde alla domanda di Stefania, farebbe meglio a chiudere.  



Lasciamo stare, invece, le lacrime degli studenti, che sono sempre l’ultimo pensiero. Bisogna piuttosto essere contenti di aver conseguito finalmente il tanto agognato ruolo, e inghiottire la provvisoria pillola di essere stati degradati da titolari a panchinari, senza peraltro esser passati in una squadra migliore. Sì, va messo in conto lo strappo momentaneo del distacco, ma cosa vuoi che sia? c’è il ruolo. Anni e anni di sacrifici, precariato, pendolarismo, finalmente premiati. Non c’è un amico che ti capisca: indoratori di pillole, smussatori di spigoli. Sembravano tutti amanti della felicità, quella oceanica senza rive, e invece, nei fatti, è la carriera che basta, un porticciolo qualsiasi; è quella che, in fondo, risolve la vita. E guardali, in questi giorni, i neoassunti: fino all’altro giorno erano tutti cheguevara, e riempivano le piazze gridando alla morte della scuola pubblica, incatenandosi contro la Buona Scuola, assimilando Renzi a Mussolini e lamentandosi della carta igienica mancante. Oggi, invece? Hanno quaranta, cinquant’anni, uno o due decenni di insegnamento alle spalle, ma si fanno i selfie brandendo il foglio dell’immissione in ruolo, e lo mettono pure su Facebook con tanto di faccine e sorrisini e spumanti e auguri universali, dimenticando un onesto “grazie Renzi, e scusaci”. A stento, se non ingrandisci l’immagine, distingui se sono ragazzine con il biglietto del concerto di Tiziano Ferro oppure esimi docenti con un foglio che avrebbero dovuto, per coerenza, ridurre a brandelli, se non, più dignitosamente, usare in luogo della carta igienica mancante. 

“Questa è la felicità”, dichiarano invece gli spumeggianti adolescenti ruolizzati. Tutti ti fanno gli auguri, perché finalmente ce l’hai fatta, e sei pure in una scuola sotto casa. “Avrai meno preoccupazioni, sarai più tranquillo”. In effetti, sembra un miraggio salutare le lunghe file al Caf per chiedere ogni estate il sussidio di disoccupazione, e forse si può addirittura tentare la rinegoziazione del mutuo. Anche se in realtà trattasi di tranquillità relative, non più rilevanti di quando aggiusti la caldaia di casa o le gomme bucate. La vita è la lotta quotidiana, cosa c’entra il ruolo con la felicità? «Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali!». Il borghesismo impazza, e «i borghesi son tutti dei porci»

Eccoli qui, i cheguevara: questo volevano: il posto fisso sotto casa. Nessuno più sta ammazzando la scuola pubblica. I sindacati che suonavano la tromba della rivoluzione hanno organizzato nel frattempo fantastici corsi per i neoassunti, in modo che magari i 500 euri che il governo ha offerto agli insegnanti continuino a girare nella catena di Sant’Antonio. L’ennesima squallida pastetta. Tutto in sordina, stavolta. Nessuna fascia nera al braccio, nessuna catena davanti al ministero. C’è solo Stefania che piange, perché le tolgono il suo insegnante. E c’è Angela che piange, perché le tolgono i suoi alunni. Ma chi se ne frega di queste lacrime? “Calmati, ti passerà”. Non vedi? Ai rivoluzionari del 17 novembre è già passato l’amore per il diritto allo studio.  

Borghesi, borghesi tutti. Quasi che l’ideale della vita fosse sistemarsi. Come se davvero quelli che si sono sistemati fossero felici e tranquilli: molti insegnanti di ruolo sono, al contrario, evidentemente acidi e lamentosi. Quando Cesare Pavese vinse finalmente il Premio Strega, dopo una vita intera a voler essere il più grande scrittore italiano, ebbe la semplicità di scrivere, sul suo diario: «apoteosi. E con questo?». Cosa ce ne facciamo, scusate, dell’immissione in ruolo? Cosa ce ne facciamo di essere uno dei centomila immessi in ruolo? Uno, nessuno e centomila: l’eterno problema pirandelliano. Essere uno dei centomila vuol dire non essere nessuno: ora si vede se sei uno! Chi sei tu, prima di un arruolato potenziatore? Tu che ti sentivi un precario a tempo indeterminato, e ora sei un ruolizzato precarissimo: chi sei davvero? Mentre fai quel che ti toccherà fare quest’anno e forse nei prossimi: non propriamente l’insegnante, ma l’animatore o il motivatore o lo showman. Senza un orario, andare a scuola a vedere cosa c’è da fare: arrivare alle 8 e sedersi in sala docenti. Forse alle 9 potrebbe spuntare un’ora in III A, poi non si sa. Buco. Menomale che ti sei portato da leggere. Poi però c’è supplenza in una quinta. No, bugia: hanno assemblea di classe. Vai in V H, allora, ché al professore hanno chiamato il carro attrezzi. Questa è gratis, gliela fai gratis. Esci alle 12, forse. Domani vedremo, “vieni alle 8”.

Tu, ti senti umiliato perché ti aspetti la dignità dallo Stato? o peggio da chi ti sposta nelle classi vuote come un burattino? Cosa volevi, i tappeti rossi? “Lei non sa chi sono io! Ho quindici anni di insegnamento, un dottorato, patapìn patapàn… Ehi, Fabri Fibra, guarda negli occhi Mozart!”. Sì, non è il massimo. Svilisce la scuola. È un altro mestiere, a dirla tutta. Ma la dignità — cioè la voglia di entrare in classe — nessuno deve dartela, e nessuno può togliertela: è roba tua, se sei uno, se finalmente ti accorgi che la posta in gioco della vita non è sistemarsi, non è avanzare di un metro, perché l’orizzonte è infinito. Non hai più da proporre ai ragazzi di studiare per poi maturarsi per poi laurearsi per poi lavorare per poi sistemarsi per poi crepare. No, ora puoi gridarglielo: ci vuole una ragione presente, non futura! Ci vuole la felicità, non il borghesismo! 

Per questo puoi goderti questa singola ora di supplenza come un casellante si gode gli occhi dell’autista che passa per pochi secondi. Perché girando nelle classi, il bisogno è sterminato, ti viene addosso: bisogno di uno sguardo, bisogno di una bellezza che vinca la noia, che sfondi la normalità. Perché di arruolati indifferenti al cuore proprio e altrui ne abbiamo fin troppi: indifferenti a tempo indeterminato. 

È di uno sguardo alla precarietà di questo cuore che c’è bisogno urgente. Non c’era bisogno di centomila neoassunti, c’è bisogno di uno! Di uno che sente l’ora del chissacché come la sua avventura: il presente, c’è solo il presente! Non c’è confronto fra quel foglio di immissione e le lacrime di Stefania: chi se le prenderà a cuore? «Chi si distingue dalla massa e ci affianca nel nostro percorso e ci aiuta a ritrovare quella passione?».