E’ notizia di pochi giorni fa: l’Italia è uno dei paesi Ocse che produce meno laureati, come dice l’annuale rapporto Education at a glance. Peggio di noi solo la Grecia e, fatto ancora peggiore, è ormai un trend, che ci vede perdere laureati rispetto agli anni passati e soprattutto rispetto alla media dei laureati negli altri paesi Ocse, segno che c’è sempre meno fiducia rispetto ai percorsi accademici negli studenti che escono dalle scuole superiori. Questo dato è diventato lo spunto per diversi commentatori per attaccare con la solita solfa dell’Italia che va male, che le nostre università vanno riformate, eccetera. Eppure proprio questo dato potrebbe essere l’occasione per andare oltre la sterile elencazione di pregi e difetti dell’università italiana, e capire come muoversi per invertire la tendenza. Ma per farlo, è necessario conoscere il contesto. Vale dunque la pena chiedersi quali siano i problemi reali con cui concretamente l’università italiana si sta misurando, per cogliere quali siano i cambiamenti in atto, dove ci stiano portando e quali siano le criticità reali in seno al nostro sistema universitario.



A uno sguardo sufficientemente approfondito, allora, si scopre che l’università italiana sta vivendo anni di rinnovamento profondi, non tanto e non solo nelle sue forme (anche se la riforma del tre più due non è ancora giunta completamente al termine e quindi assestamenti ulteriori potrebbero avvenire), quanto per due elementi che hanno a che fare con i fruitori di oggi e quelli di domani delle nostre università. 



Il primo elemento è che il mercato del lavoro soprattutto per i laureati è ormai globalizzato e cambia a una velocità che rende molte previsioni puri esercizi teorici (per esempio fa impressione pensare che la maggior parte dei laureati Ocse del 2013 siano andati a lavorare per imprese che non esistevano quando si erano iscritti), e questo genera una richiesta di formazione in grado di fare spendere la persona in contesti differenti da quelli attuali. Il secondo elemento è che in un mercato mondiale che si aggira intorno ai 200 milioni di studenti, la domanda di mobilità da parte degli studenti dei paesi in via di sviluppo è sempre più forte, cosa che costringe anche l’università italiana a ripensare i corsi e l’accoglienza dei suoi studenti ormai “multietnici”. 



Un recente incontro presso Camplus Turro a Milano, dal titolo significativo “Lo studio universitario alla prova” con Tommaso Agasisti e Michele Faldi, rispettivamente professore del dipartimento di ingegneria gestionale al Politecnico di Milano, e responsabile dei servizi didattici per l’Università Cattolica, ha gettato luce sull’argomento. Se una volta l’impianto didattico storico-analitico italiano, molto improntato a un approccio teorico dei contenuti e perciò tendente a una staticità spesso esagerata, reggeva bene a un mercato del lavoro anch’esso statico, tutto sommato “prevedibile” e dall’orizzonte limitato al locale, oggi ci troviamo di fronte a tre importanti stimoli — faceva notare Agasisti — che spingono a cambiamenti veloci: l’attenzione ai ranking, che incide sui criteri di scelta degli studenti, sia all’inizio che durante il percorso, l’on-line education, che permette di accedere a contenuti didattici gratuiti anche di ottimo livello tramite internet e che quindi potrebbe essere usata per liberare la didattica in senso più esperienziale, e infine l’internazionalizzazione, che apre sempre più le porte alla fuga all’estero e fa arrivare sempre più studenti da paesi stranieri. 

Eppure, anche la presenza di questi tre elementi nuovi non può essere affrontata reattivamente, schiacciandosi cioè sui ranking, depauperando la didattica in aula per la fruibilità online, o adottando l’inglese acriticamente anche quando non è necessario o non si hanno ancora le competenze. Passaggi affrettati rischiano di fare perdere l’idea che dovrebbe sottostare anche oggi allo studio universitario. Sottolineava infatti Faldi come, nonostante l’università di oggi tenda a diventare un grande istituto professionale, dove si forniscono conoscenze professionalizzanti tramite questo o quel percorso, sia decisivo non dimenticare due elementi: da un lato che un cammino accademico “vincente” non può essere pensato come esclusivamente formativo (nel senso di accumulare conoscenze/competenze), ma deve avere in sé una dimensione educativa, dall’altro che l’università vive di ambienti dedicati all’apprendimento (learning evironments), che devono essere adeguati anche al momento storico, cosa che in Italia è vera purtroppo solo in un numero limitato di casi. Non bisogna però perdere di vista il fatto — continuava Faldi — che quello che realmente fa la differenza è il soggetto-studente che si mette in gioco e cerca per sé opportunità che rendano il percorso originale e adeguato rispetto a ciò che interessa veramente. 

Durante il dibattito con gli studenti in sala è emerso come molti studenti arrivino però purtroppo a scegliere i loro percorsi in gran parte usando un criterio mutuato da media, famiglia e amici, cioè per “massimizzare” il risultato rispetto al risultato — ovverosia scegliendo l’università in base alla sicurezza del posto di lavoro —, senza impegnarsi realmente con ciò che interessa, senza cioè mettersi alla prova fino in fondo nel percorso che li porta alla laurea. Eppure, paradossalmente, non è importante stabilire se questo o quel criterio siano astrattamente uno migliore dell’altro, diceva Agasisti: quello che è importante è che con il criterio scelto ci si impegni fino in fondo, senza passivamente “lasciarsi trascinare” fino alla laurea.

Da questo punto di vista, la questione del criterio di scelta diventa dunque un punto rilevante e sintetico del modo con cui si vive l’università e riapre la domanda sui numeri in calo dei laureati italiani: da un lato meno gente va all’università perché pensa che non serva per l’ingresso nel mondo del lavoro, dall’altro moltissimi studenti si adeguano passivamente a qualsiasi impostazione didattica perché questo serve per arrivare in fondo e poi andare a lavorare. Verrebbe da dire: automi i primi, automi i secondi. Eppure dedicare gli anni dell’inizio della vita adulta con un atteggiamento curioso e “in cerca” è ciò che li rende veramente “formativi” e fa del cammino alla laurea una possibilità bella ed entusiasmante. 

Cosa potrebbe permettere una ripresa in tal senso? Che gli studenti siano spinti a un confronto vero e leale rispetto ai criteri che adottano quando scelgono. Ma questa dovrebbe essere responsabilità prima (della famiglia e) della scuola al momento della scelta, poi dell’università, che dovrebbe curare i suoi fruitori in modo intelligente e personalizzato, costringendoli a un confronto vero sui loro percorsi. Per quello che vediamo, il tema dell’orientamento, inteso in senso ampio e interessante tutto il cammino formativo, sta logicamente alla base di ogni possibile sviluppo futuro dell’offerta accademica italiana.