Uno spettro si aggira per le università europee — è lo spettro dell’inglese. Più precisamente, è un repertorio di espressioni inglesi che sono riprodotte variamente da docenti, studenti e figure intermedie durante le lezioni tenute nei corsi di laurea, per lo più di grado superiore. A seconda della materia, cambiano i termini tecnici; a seconda dei parlanti, mutano le pronunce e le intonazioni del discorso. Pare che gli studenti a volte non capiscano quel che il docente dice: a volte perché non sanno bene la lingua; altre volte, perché il docente ha un “inglese” tutto suo. Poiché senza corsi “in inglese” (?) si è out, il trend è in ascesa. Senza “inglese” non vi è salvezza. In attesa del cinese.
Nei decenni del secondo Novecento, la vittoria — politica, economica e culturale — dell’Impero Americano d’Occidente ha diffuso forme inglesi nel mondo non anglofono. Queste servono a chi parli altre lingue e abbia bisogno di comunicare in ambiti circoscritti per raggiungere risultati con poca fatica. Dall’inglese, lingua pluricentrica (britannica, americana ecc.), si è sviluppato uno strumento passepartout, che gli anglofoni madrelingua non sempre comprendono. Il newspeak così prodotto è una specie di “pongo”, che varia a seconda delle tradizioni culturali e linguistiche in cui hanno radici gli individui che lo usano. Avviene che “the theoretical problem” in bocca a un intellettuale parigino diventi “zé seoreticàl problèm”: per capire, occorre un corso introduttivo all’inglese dei francesi. Del pari, non è subito chiaro — a un pubblico internazionale — che cosa intenda un italiano quando dice “menàggement”, “mènager”, “pèrformance”, “rèport”, “reposìtory” e persino “long laif lèrning” (uno straniero potrebbe fare ipotesi sulla longevità degli italiani). Queste espressioni deformate costituiscono la “cifra” dell’inglese “ristretto” usato da molti italiani poco abituati alle lingue straniere.
Con qualche eccezione, la classe dirigente italiana, che esige la “internazionalizzazione” di scuole e università, non fa poi gran figura quando, all’estero, deve lasciare l’italiano e comunicare servendosi di un altro idioma. In Italia si riproducono le parole d’ordine elaborate ai piani alti delle autorità di Bruxelles. Ma le classi dirigenti dell’Europa centro-settentrionale hanno dimestichezza con l’inglese, perché in gran parte hanno come lingua madre un idioma germanico (tedesco, fiammingo, olandese, danese, svedese) che dell’inglese è parente. L’Europa romanza, invece, ha maggiori difficoltà: chi è di madrelingua italiana o francese, spagnola o portoghese, fatica di più a dominare l’inglese.
Peraltro, in Italia la competenza — almeno nell’inglese globalizzato — è aumentata negli ultimi anni, anche perché — con la rivoluzione digitale — l’anglicizzazione socio-culturale è molto cresciuta e, dopo la fine del socialismo reale e la vittoria del capitalismo occidentale, l’economia e la finanza internazionale parlano inglese.
Da una parte, le generazioni più giovani hanno una confidenza sempre maggiore con la lingua: studiano inglese a scuola per oltre dieci anni, e qualcosa in testa rimane; viaggiano di più all’estero e fanno amicizie comunicando in inglese; a casa, hanno facile accesso a testi scritti od orali in inglese autentico. Dall’altra, gli adulti hanno sempre più bisogno dell’inglese per lavorare e fare affari; la necessità fa imparare la lingua anche a chi, per abitudine, non vi è incline.
Nelle università però avviene anche altro. Sembra farsi strada la rinuncia alla lingua della comunità “locale” in favore di una lingua”internazionale” che è un gergo comune a chi abita nei “piani alti” della società della conoscenza. Peraltro, l’uso dell’inglese favorirebbe la in-groupness, la solidarietà di gruppo, che tende a escludere gli “altri”. L’esito sarebbe la formazione di uno strato socio-culturale “inter-nazionale”, che si porrebbe (non intenzionalmente) quasi in contrasto, anche culturale, con il resto delle rispettive comunità nazionali, ritenute “pigre” e incapaci di reggere al ritmo della storia.
In Italia, l’impresa è appena avviata e ha suscitato reazioni che altrove non si sono viste. La Consulta è chiamata a pronunciarsi sull’ipotesi di violazione della Carta costituzionale, nel caso tanto dibattuto delle lauree magistrali “inglesi” nel Politecnico meneghino. Si vedrà. Le università vogliono attirare studenti dall’estero; agli studenti si offre l’inglese come un “plus” che dia loro un orizzonte professionale più ampio. Ma è così?
L’uso dell’inglese nella didattica universitaria fa discutere non soltanto in Italia. Sotto l’Epifania, la Frankfurter Rundschau ha pubblicato un’intervista al vicepresidente del Bundestag tedesco, Johannes Singhammer. Il parlamentare, che fa parte della Csu (“Unione cristiano-sociale”, la Dc bavarese), ha osservato che nelle università tedesche «ci sono lauree magistrali che si tengono solo in inglese. È una scelta sbagliata», tanto più che «la Germania spende milioni per consentire a studenti stranieri di apprendere il tedesco affinché possano studiare nelle università della Repubblica Federale. Costoro poi vengono qui e si rendono conto che è stato del tutto inutile studiare tedesco e avrebbero fatto meglio a dedicarsi all’inglese» (cito dal resoconto della Augsburger Allgemeine, 7 gennaio).
I fautori dell’inglese avrebbero avuto buon gioco a liquidare queste dichiarazioni come espressione di un punto di vista conservatore tipico dei politici bavaresi (ma a Monaco i meno giovani ricordano ancora oggi la conoscenza perfetta del latino che il grande Franz-Joseph Strauß sfoggiava nei comizi, per farsi beffe degli avversari ignorantelli). Senonché a sostenere le posizioni di Singhammer è intervenuto Martin Stratmann, presidente della Società Max Planck, cui fanno capo alcuni dei più illustri istituti di ricerca mondiali. Egli ha ribadito la necessità di far sì che gli studenti stranieri raggiungano solide competenze di tedesco, poiché una cattiva conoscenza della lingua è «un ostacolo al loro inserimento nel mercato del lavoro» in Germania (cfr. www.focus.de). In altre parole, la conoscenza dell’inglese è necessaria, ma non sufficiente: non può sostituire la conoscenza della lingua nazionale.
Il dibattito che si svolge in Germania invita a riflettere sulle vicende italiane. In molti ambiti professionali occorre saper comunicare in inglese. Tuttavia, questo obiettivo non si raggiunge mettendo l’inglese al posto dell’italiano. Non si deve passare da un monolinguismo a un altro; si richiede piuttosto una competenza plurilingue che ponga in dialogo le componenti nazionali e quelle internazionali della comunicazione professionale e culturale. L’impresa è difficile, soprattutto nei Paesi “a trazione” monolingue, come è l’Italia. L’Europa delle lingue germaniche è da tempo incamminata in questa direzione e l’esperienza ivi maturata non è sempre positiva: in tutti quei Paesi si avverte l’indebolimento culturale delle lingue non anglofone, là dove si tende a cedere all’inglese alcune funzioni sociali di prestigio, come la comunicazione in ambito accademico. È avvertita l’urgenza di tutelare e promuovere la ricchezza del patrimonio linguistico europeo, senza però negare l’importanza dell’inglese. La tutela delle lingue è anche difesa delle culture, oggi esposte a spinte omologatrici che riducono la capacità di esprimere le peculiarità dell’esperienza umana.
Sapranno le istituzioni italiane far tesoro delle esperienze accumulate in altri Paesi europei? Non ci sono molti elementi per “star sereni”.