La “Buona Scuola” si avvicina al suo passaggio a Nord-Ovest. Non è detto che riesca a trovarlo. In attesa che arrivino i decreti, previsti per il 28 febbraio, qui si può solo andare in avanscoperta per una ricognizione del terreno. 

La prima asperità è quella dei 148mila precari, che il documento promette di assumere subito. L’esercito del precariato è frammentato sia territorialmente sia nel sistema scolastico. Gli iscritti alle graduatorie ad esaurimento (Gae) non sono tutti precari e non sono tutti i precari. Non tutti precari, perché qualche decina di migliaia sono già di ruolo in un qualche ordine di scuole. Solo che, mancando una carriera, l’unico modo per aumentare le retribuzioni è quello di fare il salto quantico, da un’orbita dall’altra del sistema scolastico. Perciò si iscrivono nelle liste di attesa di un altro ordine.



Ma, soprattutto, le Gae non contengono tutti i precari. Molti giovani supplenti, immessi nelle graduatorie di istituto, non sono compresi nelle Gae. I sindacati difendono le Gae e stop. Il che apre conflitti “in seno al popolo” di non facile soluzione: il ministero dovrà barcamenarsi tra diritti acquisiti di vario genere e non imprevedibili ricorsi ai Tar di coloro che saranno tagliati fuori. 



E qui torna un altro divide: quella tra Nord e Sud. Al Sud, misteriosamente ma non troppo, i precari sono proporzionalmente assai più numerosi che al Nord. La Sicilia, come scrive il rapporto della Fondazione Agnelli, ne ha 20mila. Aumentano i docenti in attesa di lavoro, diminuiscono gli alunni. Ma anche dove i precari sono meno numerosi, non c’è corrispondenza tra la domanda formativa della scuola e l’offerta del mercato dei precari. 

Pertanto, si prospetta realistico un rischio: che attorno a un nucleo di docenti di ruolo si crei una cerchia di docenti cosiddetti “funzionali”, che si fanno girare per la scuola, alla ricerca di un impiego utile e provvisorio, ma per niente affatto coerente con le conoscenze/competenze di cui dispone questa minoranza di docenti. Pagati, ma funzionalmente intercambiabili e di nuovo sostanzialmente precari. 



Ci sarebbe una via parziale di uscita: far saltare la fortezza delle classi di concorso, che attualmente infilano su binari predefiniti i profili in uscita dalle università e li parcellizzano ulteriormente, in base a logiche amministrative e sindacali, per andare, invece, verso un insegnante polivalente. Per vedere una tale figura all’opera, occorre a monte definire un itinerario formativo più flessibile e rigorosamente certificato. Sotto i titoli di laurea, spesso si nasconde tutt’altro rispetto al dichiarato. 

Dietro la prima asperità, si intravede una montagna più grande: quella della valutazione del merito. Abbandonata l’idea improbabile e insostenibile finanziariamente di premiare ogni tre anni i due terzi (66%) di tutti i docenti di ogni scuola (o rete di scuole) che abbiano maturato più crediti nel triennio precedente, resta per intero il problema di come identificare e come premiare gli insegnanti migliori. 

Andrea Ichino aveva proposto di ricorrere a un criterio di “chiara reputazione”. In effetti, ciascun docente valuta ogni giorno ogni altro. Raccogliendo i giudizi e depurati opportunamente di scorie personali, il quadro che ne esce è realistico. Resta un problema non facilmente risolvibile: quello della formalizzazione del giudizio. Chi valuta chi? 

Il rischio di accendere una conflittualità endemica nel corpo insegnante è dietro l’angolo. Questa, tuttavia, è anche l’obiezione da sempre opposta da chi è totalmente contrario alla differenziazione retributiva. 

Ci sono due strade, che possono procedere da subito in parallelo o, per un breve periodo, in sequenza. La prima è quella di aumentare consistentemente la retribuzione di quanti si occupano non solo della propria classe, ma dell’intera organizzazione dell’offerta formativa di una scuola. Si tratta delle funzioni strumentali (dalla vice-presidenza all’autovalutazione…),  di chi coordina i dipartimenti, di chi tiene i rapporti con le famiglie, le istituzioni, la società civile circostante. A svolgere queste funzioni si arriva per designazione o per elezione, non sempre per merito. Ma resta che chi le svolge ha responsabilità e carico di lavoro più alti. E’ normale retribuire di più. 

Quanti docenti potrebbero essere coinvolti da questo metodo? Un numero basso, ma non trascurabile. Calcolando un numero, a naso, di 10mila istituti e una decina di insegnanti per istituto, circa 100mila docenti potrebbero essere retribuiti in modo differenziato. Si tratta del 10%-12%, più o meno. Una platea che sarebbe anche quella più adeguata per il reclutamento per concorso dei futuri dirigenti. 

La seconda strada — quella maestra, in realtà! — è la definizione di uno stato giuridico e di una carriera degli insegnanti. A quel punto, se un docente vuole fare uno scatto di carriera, si sottopone a valutazione. Accade in Francia e Germania. Sono passati più di dieci anni dal progetto di legge Asciutti e dal progetto di legge Aprea, ma tutto è rimasto al palo, per i veti incrociati all’interno di ciascun partito, tra i partiti e, naturalmente, per quelli dei sindacati, da sempre paladini del criterio di anzianità quale unico motore di avanzamento di carriera. Se è improbabile che lo stato giuridico possa essere squadernato in un decreto, è probabilissimo che un disegno di legge scatenerà le opposizioni, interne e esterne alla maggioranza di governo, trascinando in lungo la faccenda, fino al prossimo stop. 

Decisamente il percorso legislativo della Buona Scuola parte in salita. Ciò che colpisce, alla fine, è che l’annunciato cambiamento radicale, che è la condizione per rimettere il sistema educativo in asse con il Paese e con i bisogni dei ragazzi, non si vedrà neppure questa volta. Il metodo del piccolo aggiustamento con il cacciavite ha già mostrato tutta la sua pochezza. 

Il ministro — e ora presidente della Repubblica — Sergio Mattarella aveva posto già nel 1990, nella Conferenza nazionale sulla scuola dal 31 gennaio al 2 febbraio, i pilastri del cambiamento: si chiamavano e sono l’autonomia delle scuole e la valutazione. Dopo lo slancio di Luigi Berlinguer con il suo DPR 275/1999, l’autonomia è scomparsa dagli schermi della politica decidente. La valutazione ha avuto fortuna maggiore, ma scarsi investimenti. 

In ogni caso, la scuola continua ad essere trattata dalla politica — ma anche dalla società, dalle famiglie, dagli opinion maker — come una semplice articolazione dello Stato amministrativo. La questione del personale, che è strategica in ogni sistema di servizi, qui continua ad essere l’unico prisma attraverso cui si traguarda l’intero sistema, nell’illusione che si possa preparare un personale migliore senza porre al centro le quattro aree delle competenze-chiave già definite da Fioroni: una riorganizzazione degli ordinamenti, un assetto istituzionale e di governance che parta dal fatto che è la scuola reale e militante sul territorio la protagonista del sistema educativo, che ad essa vada consegnata la libertà totale e che vada rigorosamente e severamente valutata dall’esterno, per evitare che si trasformi in anarchia opportunistica. 

Se al centro dell’attenzione politico-culturale sta il personale e non stanno le necessità oggettive, i bisogni e le domande delle nuove generazioni che vengono avanti ora, il sistema educativo continuerà placidamente a collassare. La cultura politica diffusa ed egemone nel Paese resta quella fortemente statalista. Ma, come per altri settori della vita del Paese, questa dello stato centralistico non è più la misura adatta.