Scuola e social media. Se ne parla in questi giorni, in attesa di capire qualcosa di più sulla “Buona Scuola”. E’ possibile un utilizzo didattico dei social media?
“L’allodola, il fringuello, il fanello, il canarino twittano e pigolano tutto il santo giorno, e al tramonto piegano il capo sotto l’ala, ed eccoli addormentati. E’ questo il momento in cui il genio pone mano alla sua lampada e l’accende”.
Basta forzare un pochino la traduzione del verbo, sostituendo “cinguettare” con “twittare”, ed ecco che Denis Diderot, l’autore della frase, ci dà una chiave per la nostra riflessione. Il cinguettio è veloce, spumeggiante, breve, divertente, ma s’accende e si spegne senza lasciare traccia. Il genio dispiega le sue ali molto più in alto, illumina con la sua lampada una notte ben più affascinante. La profondità, la riflessione, il pensiero complesso, il linguaggio articolato, le sfumature, la poesia, la ricerca autonoma, la concentrazione, la creazione, il ragionamento, l’argomentazione, la domanda vertiginosa sono esperienze che si fanno nel silenzio, nel rapporto autentico, nello studio rigoroso, nella notte di cui parla Diderot.
Ma come fare, se l’onniconnettività dei social media ci fa restare sempre con un occhio allo schermo del cellulare? E a scuola, che si deve fare davanti alla loro pervasività?
In alcuni regolamenti scolastici vige ancora il divieto di utilizzare il cellulare durante la lezione, ma è chiaro ormai a tutti che non è questa la strada giusta. La cosa curiosa è che la scuola contiene come un grande baule ferri vecchi e ferri nuovi. Per comunicare si utilizza ancora il vecchio metodo ottocentesco della bidella che bussa classe per classe con la circolare in mano da far firmare al docente di turno (è ancora così in tantissime scuole). Risultato: quasi nessuno la legge. Cosa in fondo comprensibile, visto che, sia per l’estrema burocratizzazione della scuola, sia più positivamente per le tante attività flessibili opzionali aggiuntive che la scuola offre, sia per le dimensioni piuttosto grandi degli istituti, le circolari possono essere qualche centinaio ogni anno. Ma accanto al vecchio “porta a porta” in molti casi si utilizzano per le comunicazioni mezzi più veloci, ad esempio il registro online, il sito della scuola, gli sms, e da parte di molti docenti anche i gruppi Google, Facebook e Whatsapp.
Certo, i dati statistici sul livello di informatizzazione e di accesso alla connessione delle scuole italiane non sono affatto confortanti. Soprattutto, ciò che troppo spesso viene lasciata fuori dalle aule è l’opportunità di educare i ragazzi alla consapevolezza e alla responsabilità nell’uso dei social media e del mezzo informatico in genere.
E’ chiaro che i ragazzi vivono continuamente connessi, contemporaneamente in classe ed altrove. Per lo più si ritiene che ciò sia fonte di distrazione, che la comunicazione diventi sempre più scarna, il linguaggio meno articolato e complesso.
E certamente è così. Ma ciò può anche fornire un modo diverso di essere partecipi: se a lezione sorge un dubbio su una nozione o un dettaglio, ecco che in un attimo il più svelto ha già trovato la data o il nome giusto (sempreché wikipedia non lo abbia tratto in inganno). Allora è possibile utilizzare i social per fare scuola?
L’ho chiesto ai miei allievi, e un po’ a sorpresa mi hanno detto convintamente no. Troppo superficiale la comunicazione, troppo rapida la lettura, troppo artificiale il dialogo.
Certo, ormai tutti sfruttiamo la comodità e la velocità dei social media. Perfino le email sono uno strumento vecchio e poco usato dai ragazzi. Solo gli adulti un po’ attempati credo consultino la posta compulsivamente più volte al giorno. E allora ecco che per una comunicazione veloce, per un cambio di programma all’ultimo minuto, per un avviso urgente alla classe ricorriamo a Whatsapp.
Per Facebook il discorso è più complesso. Innanzitutto proporlo come mezzo didattico significa dare per scontato che tutti i ragazzi e i docenti lo utilizzino, mentre non è così. Non tutti sono disposti a lasciare dietro di sé quella traccia di dati così appetibile e appetita dagli analisti del marketing. E poi, come è noto, è sempre molto difficile restare nei limiti di un rapporto docente-alunno: l’amicizia su Facebook travalica facilmente in una confusione di ruoli. Ma ad esempio la possibilità di rimanere in contatto con tanti ex-alunni, seguendo a distanza i loro passi nel mondo dell’università e del lavoro, continuando a condividere con loro consigli di lettura, articoli, scoperte e passioni intellettuali sembra dare una nuova possibilità, aprire a una nuova stagione, più adulta e matura, il rapporto docente-alunno.
Fra i ragazzi, come ogni insegnante ha di certo sperimentato, Facebook può funzionare da moltiplicatore nocivo delle normali dinamiche adolescenziali: i bullismi, le ripicche, i meccanismi di esclusione, i pettegolezzi crudeli girano velocissimi e con un raggio molto più ampio, con conseguenze non sempre controllate. D’altra parte, i gruppi social sembrano avere molte potenzialità didattiche, per comunicare scritti, immagini, esercizi. Ma anche per invogliare a partecipare, a coinvolgersi, a imitare esperienze positive, a incontrarsi. La condivisione dei testi poi offre molte chances nel promuovere il lavoro cooperativo, la ricerca di gruppo, l’auto-aiuto fra studenti.
Un utilizzo positivo dunque sicuramente ci può essere e forse si preciserà meglio in futuro. Non vediamo ancora chiaramente in questo campo, e lo spazio per sperimentare e innovare è ancora tanto. Ad esempio, non è così chiaro se i supporti elettronici che usiamo per leggere siano altrettanto efficaci per studiare o memorizzare un testo. Resta però che qualunque idea si abbia di scuola, al centro ci sarà sempre il rapporto personale e realissimo fra i protagonisti dell’avventura dell’imparare e del ricercare insieme. La passione, il rigore, la fatica, la gioia dello studio si contagiano nello scambio personale. Se il social aiuta, ben venga. Non bastano i tweet delle allodole, la scuola deve aiutare ogni ragazzo ad accendere la sua lampada.