L’utilizzo esclusivamente nominalistico di termini che invece dal punto di vista scientifico presentano significati specifici e che proprio per questo diventano indicatori di cambiamenti reali è da sempre un aspetto che caratterizza molti dei documenti sulla scuola.
Il documento “La Buona Scuola” non sfugge a questa regola e ciò accade in particolare in riferimento all’espressione “sviluppo professionale” e al termine “mentor” (utilizzato, chissà perché, in inglese anziché nell’italiano “mentore”).
Del resto nel documento il problema della formazione in servizio dei docenti viene pressoché totalmente trascurato e si ha anzi l’impressione che esso venga lasciato ancora alla libera scelta degli individui. Lo stesso sistema degli scatti di competenza, non correlati all’acquisizione esplicita di crediti professionali e di qualificazioni anche formali, induce a tale dubbio. E’ in ogni caso comunque grave che lo sviluppo professionale, la formazione in servizio e l’aggiornamento vengano ritenuti semplicemente tre modi diversi per definire, nel corso del tempo, le stesse situazioni, per cui, secondo gli estensori del documento, “i limiti sono rimasti gli stessi”.
Se invece si ritiene che i termini debbano corrispondere a significati ben precisi, non si può non rammentare che l’aggiornamento (inteso per l’appunto come “messa a giorno”, cioè processo necessario per rivedere e incrementare le proprie conoscenze) debba accompagnare tutti i docenti. Ogni disciplina insegnata, infatti, subisce continuamente revisioni e ampliamenti, è oggetto di nuove scoperte che non possono essere ignorate da chi lavora in una scuola. Se per alcune discipline la necessità di aggiornamenti continui è più sentita (si pensi ad esempio alla biologia e alla fisica), ciò non toglie che anche discipline apparentemente più statiche subiscano mutamenti che devono entrare a far parte del patrimonio di conoscenze di un docente.
Quanto alla formazione in servizio, essa si distingue dalla formazione iniziale e interviene parallelamente al lavoro in classe. Quindi da un lato richiama una dimensione temporale, dall’altra sottolinea la necessità di continuare per l’intera vita professionale ad acquisire competenze da spendere sul campo, cioè nella scuola.
Lo sviluppo professionale, infine, richiama la dimensione del cambiamento e rimanda a uno specifico approccio psicologico denominato del “ciclo di vita”. Il richiamo esplicito allo sviluppo non soltanto dovrebbe evidenziare come siano in gioco processi incrementali che riguardano in pari misura le conoscenze, le abilità e le capacità, ma soprattutto dovrebbe sottolineare la necessità di un rapporto costante con i contesti attuali in cui i docenti si trovano e che si identificano con le classi scolastiche nelle quali concretamente essi agiscono ogni giorno.
Parlare di sviluppo professionale significa quindi andare oltre il semplice intervento di esperti esterni e superare non soltanto le modalità trasmissive ma anche le tecniche esperienziali di formazione, per accentuare invece quella che in psicologia si chiama “dimensione prossimale”.
Per i docenti, cioè, lo sviluppo professionale deve avere luogo attraverso processi di interazione progressivamente sempre più complessa con le persone, gli oggetti e i simboli che si trovano nel loro ambiente esterno immediato, nella fattispecie la scuola e la classe.
Ma i processi prossimali richiamano altresì la necessità di una figura che promuova, sostenga e supporti tale sviluppo: per l’appunto, il mentore.
Nel documento “La Buona Scuola” il mentore fa parte del Nucleo di valutazione, quindi è chiamato a esprimere una valutazione esplicita dei docenti. Egli “segue per la scuola la valutazione, coordina l’attività di formazione degli altri docenti, sovraintende alla formazione dei colleghi, accompagna il percorso dei tirocinanti, in generale aiuta il preside e la scuola nei compiti più delicati legati alla valorizzazione delle risorse umane nell’ambito della didattica”. Si presenta quindi come componente dell’organizzazione scolastica e viene scelto “tra i docenti che per tre anni consecutivi saranno stati premiati con lo scatto stipendiale”.
Siamo abbastanza lontani dal modo con cui, nella ricerca educativa internazionale, si definisce il ruolo e la figura del mentore.
La definizione più completa è quella di un individuo in possesso di un’esperienza più profonda, che intende condividere le conoscenze di cui dispone con un altro individuo in possesso di un’esperienza inferiore, all’interno di una relazione fondata sulla fiducia reciproca. Egli comprende in sé le caratteristiche del genitore e del pari. Non necessariamente interviene in una relazione 1:1; il suo intervento è altrettanto efficace se indirizzato a un gruppo.
Uno degli studiosi che maggiormente si è occupato di sviluppo professionale, Huberman, attribuisce al mentore quattro ruoli finalizzati al sostegno della formazione:
1. il ruolo di catalizzatore, che consiste nel far emergere la motivazione al tipo di lavoro da svolgere e far acquisire un’identità, unificando e coordinando le risorse per conseguire un obiettivo condiviso;
2. il ruolo di facilitatore, finalizzato a sostenere l’autodeterminazione del gruppo e a sostenere il gruppo nelle operazioni di analisi dei bisogni e nelle decisioni collettive;
3. il ruolo di consigliere tecnico, che offre le proprie competenze e propone soluzioni, non permettendo che venga perso di vista l’obiettivo di partenza,
4. il ruolo di documentarista e reperitore di risorse, capace di fornire indicazioni, bibliografie, materiali.
Gli effetti del suo intervento si misurano pertanto in rapporto al clima che si crea, al grado di soddisfazione, alla deontologia, alle prestazioni professionali. Siamo molto lontani dall’espressione di una formale valutazione, tant’è vero che gli individui affidati al mentore vengono denominati “protégés”, cioè i “protetti”, a indicare coloro che ricevono supporto e protezione attraverso attività di osservazione, guida e indirizzo ma anche di ascolto, incoraggiamento, chiarificazione, sostegno.
Il mentore non valuta, ma agisce all’interno di una cornice generale che è quella della supervisione, la quale è da intendersi come processo formativo per aiutare gli individui a fare meglio il proprio lavoro.
Il mentore deve perciò essere in possesso di una formazione specifica e deve padroneggiare tecniche e strategie altrettanto specifiche. Il sistema degli scatti di competenza non offre alcuna garanzia in merito.
In assenza di tali requisiti, anche il mentore corre il rischio di fare la fine di altre proposte che nel corso dei decenni si sono succedute: all’entusiasmo iniziale segue cioè la delusione e, dopo poco tempo, l’abbandono. Se ciò avvenisse la formazione dei docenti continuerebbe a essere in larga parte una scelta individuale e quindi non sarebbe mai ricondotta a sistema: cosa, invece, di cui c’è assoluta necessità.