Facciamo finta che io sia un giovane da qualche mese neolaureato in lettere, con tanto di 110 e lode alla fine del terzo anno e con un altro bel 110 e lode nella laurea magistrale, grazie a una bella tesi sulla poesia contemporanea che, dice il professore, qualche anno fa avrebbe anche ottenuto la dignità di stampa. Ma oggi?
Facciamo finta che, dopo poca attesa, io riesca a ottenere una supplenza di qualche mese in un istituto superiore non distante da casa, grazie ad un signore che in quella determinata sera ha pensato di spingersi molto in là nei complimenti alla moglie e di sottrarla alla correzione dei compiti di grammatica: la moglie adesso sta leggendo libri sui nomi da dare al figlio che verrà, mentre io correggo volentieri quei compiti di grammatica.
Eccomi qui: catapultato nel mondo della scuola in cui mi sono sempre immaginato fin da quando mi ero iscritto all’università. Sembra proprio una stranezza, ma a me sembrava invece strano che qualcuno potesse pensare il contrario, compreso il ministero che da cent’anni a questa parte non ha mai pensato che una laurea in lettere dovesse essere automaticamente abilitante all’insegnamento, con l’inserimento di dovuti corsi ed esami. Ma così non è.
Io comunque devo essere un tipo fortunato, dicono i miei colleghi più anziani della scuola in cui sono apprezzato supplente: il ministero dice che è ora di fare un concorso per la partecipazione al Tfa e che io posso partecipare. Quando? Non si sa, si vedrà. Dove? Verrà deciso a tempo debito. Su cosa verterà l’esame per l’ammissione al corso? Troppo presto per dirlo. Figuriamoci se ci sanno dire come si articoleranno gli esami e come, ancora più difficile, i corsi stessi nel caso si passasse l’esame. E dunque? Dunque tu studia, non si sa bene cosa, e iscriviti, non si sa bene a che cosa. Per cosa? Per un’abilitazione, che è sempre utile, no?
E’ così che avviene per tutti i professionisti del mondo che partecipano a gare e concorsi, no?
Facciamo finta che finisce la scuola, i miei studenti piangono lacrime amare perché poi a settembre non sarò più con loro e io, come sempre, si sa, sono molto meglio della loro prof… Io e un po’ di professionisti dell’educazione come me in attesa di Tfa non partiamo neanche per le vacanze, stiamo chiusi nelle nostre stanze come quando eravamo studenti al liceo e studiamo tutto il mondo delle lettere italiane e latine, della storia e dei paesi europei ed extraeuropei. Stiamo appesi alle pagine web, attendendo che il signornonsochi dell’ufficiononsoquale riveli la data del quiz.
Del quiz? Sì, ci sarà, come per i presidi, una sorta di pre-esame, una scrematura, una trebbiatura veloce, cari professionisti dell’educazione, cari agricoltori delle giovani menti del futuro. E sia. Qualche giorno prima della fatidica data, sappiamo la fatidica data: su cosa verremo selezionati? Su tutto, si vedrà. Migliaia di cervelli si spostano dalle loro stanze con auto, treni, metro e aeroplani e atterrano su un banco di una scuola grande come una provincia italiana e si trovano a fare i conti con una sorta di prova Invalsi a quattro corsie in cui non puoi prendere nemmeno una sbandata.
Noi siamo i perfetti che salveremo il Paese, ci mancherebbe che non sapessimo riconoscere al volo, tra quattro versi diversi, l’autore minore del Seicento che tanto fuoco versò nei suoi versi. Noi siamo i giovani creativi sui quali conta il Paese: mica come quelli svizzeri o tedeschi che hanno esami e programmi e certezze, noi andiamo baldanzosi incontro alle improvvisazioni. E se riusciremo a sopravvivere, otterremo la gloria. O l’abilitazione.
Facciamo finta, però, che io sono bravo davvero. O che ho la solita fortuna e lo passo, questo grande snodo della vita, il signornonsochi dell’ufficiononsoquale ha avuto premura di comunicarlo attraverso le pagine digitali: siamo o non siamo la generazione web? Bene, adesso tocca al resto, esame vero, mica quiz o controquiz: scritto più orale e poi via ai corsi. Solite domande: dove? Come? Quando? Su che cosa? Quisquilie, noi intanto studiamo. Io in particolare anche il latino perché di esami ne avrò due, appunto: italiano nelle medie e negli istituti superiori; italiano e latino nei licei. E così tutte le incertezze raddoppiano. Racconterò però qui una volta soltanto, facendo finta che voi, leggendo, possiate moltiplicare per due ogni cosa che racconto. Ma a fine ottobre ci dicono che a metà novembre c’è l’esame, così uno si rincuora e si dà forza: pochi giorni per dare fondo allo studio di tutto quello che pochi giorni prima ci avevano consegnato con un programma che nemmeno wikipedia lo tiene dentro tutto.
Questa volta lo scritto si scrive in un’aula dell’università: domande su iperbole e qualche altra figura retorica; quattro versi di un sonetto sconosciuto da attribuire a chissàqualegrandepoeta; dettagli sull’abito di Carlo V durante la sua visita chissàdove; in latino addirittura una versione da Cicerone, meno male, da svolgere però senza vocabolario, perché si sa che chi lavora nel circo lavora senza rete, in bilico sul filo nel vuoto. Mi vengono in mente i volti dei ragazzi che ho lasciato a giugno: perché hanno pianto quando sono andato via? Forse perché ho spiegato loro l’ipallage? Certo, ho spiegato anche quella, ma avevo degli occhi sparati nei loro e cercavo di capire dove li avrei portati con quella lettura, ben oltre il muro di metonimie, similitudini e altro.
Comunque, ed è la terza volta che succede che lo dica, io sono bravo o ho fortuna e quelle robe le conosco e le scrivo. Il signornonsochi rivela che dopo pochi giorni ci sarebbero stati gli orali, senza quasi por tempo nel mezzo, direbbe il chissàchegrandepoeta che ama l’apocope. Io intanto risento il mio collega più anziano della scuola che ho lasciato: lui è uno che entra in classe e, anche se spiega l’ipallage, persino le zanzare si fermano ad ascoltarlo, ha un carisma e una forza che vorrei proprio imparare e gli faccio vedere su cosa ci hanno selezionato. Lui è curioso, si mette a guardare con me sull’internet della scuola e ci prova: non ce la fa nemmeno a superare il 50 per cento e ha la laurea da più di trent’anni ed è professore di ruolo e ha il carisma che gli svolazza fuori dalla voce e dagli occhi e starei ad ascoltarlo per ore e ore.
Ma allora a che serve tutto quello che so? Intanto per ore e ore me le ripeto tutte quelle cose che so, ad alta voce, come un bambino delle scuole primarie che si prepara all’interrogazione. Perché l’orale è alle porte. I professori sono divisi in commissioni e a me, che la fortuna l’ho sempre avuta, tocca stavolta quella più esigente e tignosa: con la profassistentedelprofdellastoria che ha il suo bel libro chiuso dentro il cassetto ed è proprio su quello che magari ti chiede il dettaglio; con il prof della letteratura che mi guarda come se fossi uno scolaretto impaurito, e forse lo sono. Ma no, sono uno che ha già dimostrato le cose che sa, che sa stare dietro la cattedra e che vuole imparare dall’amico col carisma di prima: non puoi farmi la domanda trabochetto, collega, perché di questo si tratta, che tu sei un collega o giù di lì.
Sta di fatto che, ed è la quarta volta che lo dico, sono bravo o ho fortuna. E il signornonsochi di nonsoqualeufficio pubblicherà il mio nome tra quelli che hanno vinto la Champion. Pardon le fasi preliminari, perché adesso bisognerà capire se, con il punteggio che ho avuto, potrò rientrare nel calendario vero, quello dell’università dove mi sono laureato con tutti i suoi corsi nuovi di pacca per noi aspiranti insegnanti. O se dovrò andare in un altro ateneo, io che sono di Milano, magari a Parma o a Vercelli o a Torino. Per fortuna, ancora, ho un punteggio da campione del mondo, altro che Champion, e allora potrò frequentare a Milano. Quando? Come? Su quale programma? Ci sarà da frequentare un tirocinio? E le supplenze fatte potranno essere valutate come banco di prova?
Naturalmente nessuna risposta, intanto però il signornonsochi mi fa sapere che posso pagare: mille euro tanto per cominciare, poi altri millecinquecento a corsi iniziati.
E’ così, carissimo aspirante insegnante in questo paese che cambia, che funziona meglio di prima perché uno che ha i gradi di primo ministro se lo dice tutte le mattine allo specchio. Intanto pago e, con la mia solita fortuna, mi richiamano nella scuola dello scorso anno: un altro signore deve avere invidiato quell’altro e anche lui ha distratto la moglie dal suo lavoro di prof. Io ritorno lì, avrò qualche ora con due classi che non erano le mie, ma rivedrò i miei vecchi studenti. Ce la farò a frequentare anche il corso? Vorranno tenere conto del fatto che insegno come di un tirocinio? A me sembra normale farmi domande: a nessuno viene in mente che è normale darmi risposte? Intanto pago, aspetto e spero. Del resto, come diceva Montale, un imprevisto è la sola speranza.
(1 – continua)