Si chiama Universitas-University ed è — come si legge nel suo sito web — una libera associazione che ha lo scopo di fornire un aiuto a docenti e ricercatori di ogni Paese che desiderano confrontarsi sulla natura e le modalità del proprio lavoro e, più in generale, sulla concezione di Università.

Per contrastare, o per correggere, l’ormai secolare inclinazione allo specialismo scientifico e cognitivo, per decenni esaltato nel nome della razionalità positivistica, l’esistenza stessa di un’associazione come questa, composta quasi interamente da studiosi dell’accademia, è da guardare come a un miracolo, con gratitudine. Evidentemente, è gente preoccupata di non finire soffocata in àmbiti e percorsi di ricerca raffinatissimi ma poco comunicanti, vuoi con altri campi del sapere vuoi col pubblico ordinario, e perciò si fa la domanda epistemologica di fondo: qual è il senso, dove tende, in definitiva, la mia ricerca, la ricerca di ciascuno? 



È gente che coltiva un’amicizia semplice e autentica animata dall’esigenza di un senso condiviso, unitario o, meglio, universale, che sappia dunque cogliere il parti-colare nell’orizzonte di un tutto non confuso o generico, bensì intenzionato a un fine di vasto respiro e di alta responsabilità, e a un beneficio per tutti di vera conoscenza, non soltanto tecnica o strumentale.



Chi scrive non viene dall’accademia (cui pure ha a lungo collaborato), ma principalmente dalla scuola. E proprio in quanto uomo di scuola è stato invitato da Carlo Soave, biologo emerito, all’ultimo convegno dell’Associazione qui presentata, a riprova di quella responsabile volontà di comunicare e, pure, di apprendere quanto il mondo degli studenti più giovani ha da domandare e, perché no?, da suggerire.

Una settantina di docenti e ricercatori universitarii italiani di ogni provenienza — dall’economia alla fisica alla filosofia al diritto alla neurologia alla biologia all’agraria… — hanno accettato di dedicare, dal 26 al 28 febbraio scorso, tre giorni del loro tempo prezioso (il card. Colombo, arcivescovo di Milano, amava dire che per gli studiosi “il tempo è scienza”) a ragionare in comune, in unità d’intenti e en amitié, su ciò che significa “verità” nella ricerca. E, nella scia di tale magna quaestio, a chiedersi “come possiamo esserne certi?” e se “può darsi vera conoscenza senza affezione”. Il convegno di Universitas-University si è svolto a Ginevra, al Cern, negli edifici che sorgono in corrispondenza del lungo anello (27 km) sito a poco meno di cento metri di profondità. È l’LHC — o Large Hadron Collider —, l’acceleratore di particelle subnucleari più grande e potente al mondo, grazie al quale tre anni or sono si poté confermare l’esistenza del fondamentale bosone detto “di (Peter) Higgs”, che per questo si è meritato il Nobel. In una sede così prestigiosa e predisposta al dibattito, si sono avvicendate relazioni pluridisciplinari, conversazioni, obiezioni e tante domande. Il tutto in un clima informale e accogliente di convivenza in cui ognuno è stato libero d’intervenire. 



Le questioni sollevate, e ogni volta proposte da uno specifico punto di osservazione — dell’astrofisica, della biologia, del diritto, della filosofia — hanno toccato le categorie nevralgiche che informano o con cui si fa la ricerca. Ha aperto il convegno Marco Bersanelli, lo studioso di cosmologia che fra l’altro coordina la progettazione e lo sviluppo del Low Frequency Instrument utilizzato dal satellite “Planck”, che ha finalmente fornito la mappa integrale dell’universo della radiazione cosmica di fondo, considerata la lontana eco del big bang. Bersanelli ha ricordato lo statuto della verità scientifica: essa è genuina e parziale — ché l’oggetto vi è ridotto alla sua semplificazione —; è provvisoria e dinamica — ché, raggiunto un traguardo, ne scaturisce una nuova domanda —; ed è additiva — ché è il prodotto di scoperte e cognizioni certe che via via vengono componendo un quadro che non possediamo già intero e che però, a poco a poco, si definisce. 

Un vero, dunque, che matura in evidenza, la quale non si limita al vedere il dato (comunque necessario e irriducibile), ma comporta il riconoscerne il senso, ciò che in modo eminente mette in gioco la libertà del ricercatore. Ora, se si pensa a quale e quanto certosino lavoro di calcolo si sobbarchi un fisico, così dell’infinitamente grande come dell’invisibile submicroscopico, colpisce sentir dire che si rende indispensabile “un’educazione dello sguardo”, che presiede tanto alla fedeltà al dato studiato quanto alla decisione che ci vuole nella verifica del dato medesimo.

Dei contributi introduttivi alle varie sessioni, sempre molto interessanti e presto leggibili nella pubblicazione che se ne darà online nel sito dell’associazione, merita qui menzionare quello dell’on. Luciano Violante, magistrato di punta, studioso di diritto penale e, al contempo, importante testimone della storia politica — da esponente del Pci, prima, e della sinistra democratica, poi — e delle istituzioni della Repubblica quale presidente della Commissione parlamentare Antimafia e della Camera dei deputati. Dopo aver fotografato lo stato della nostra civiltà occidentale, e dunque italiana, segnato dall’eccesso d’informazione, dalla banalizzazione, dalla spettacolarizzazione che svuotano di significato il cuore della nostra vita di persone private e pubbliche, Violante si è soffermato sulla nozione di verità in rapporto alla menzogna, per capire in che misura l’una e l’altra siano state e siano produttive nella storia moderna. 

In gioco, si capisce, c’è la fondamentale e mai risolta dialettica tra regimi democratici e totalitarii, che oggi si ripropone. Ma Violante ha avuto la libertà e il merito di andare al cuore della tensione dialettica. Dinanzi al maltrattamento che subisce l’idea stessa di “verità” — incline a scivolare in verosimiglianza e sfumare in probabilità —, egli ha ravvisato la radice del problema nella “crisi del desiderio di significato” — dando così un nome alla drammatica ma generica denuncia del 44° Rapporto Censis (2010).

Sicché l’accademico di lungo corso, l’allievo di Aldo Moro, fuori dalla tentazione “intellettuale”, ha dichiarato senza mezzi termini che, di fronte a scenarii internazionali inquietanti e prossimi di guerra e a una galoppante mutazione delle ambizioni in pretese e infine in diritti, è urgente ripristinare il “principio di comunità”. Non però comunità di sangue o di territorio, ma proprio “comunità di significato” che aiutino il rinnovarsi del senso del compito e del sacrificio.

L’intelligenza lucida e cordiale di Violante e degli altri convenuti ha certo alimentato di significato le giornate ginevrine, che sono state un’intensa esperienza di comunità, in un clima amicale e fervido, quasi senza soluzione di continuità coi momenti più informali. L’ambiente che ci ospitava ha conferito molto, così come gl’incontri avuti coi tre italiani che si trovano ora ai vertici strategici del Cern. 1. Fabiola Gianotti, già coordinatore del progetto Atlas (l’esperimento del bosone col concorso di tremila studiosi), direttore generale (designato) fino al 2020, la prima donna della storia del “Conseil”, colei dalla quale, nel dicembre 2013, Peter Higgs volle farsi accompagnare a ritirare il premio Nobel. Una persona che ti disarma tanto per la precisione e la serietà delle risposte quanto per la semplicità e l’affabilità del tratto. 2. Sergio Bertolucci, direttore di ricerca e calcolo scientifico, figura strategica del Cern, ci ha dedicato ben oltre un’ora fitta di domande e risposte su questioni tecnico-scientifiche così come su problemi di metodo. “Lo scienziato — ha detto — è ministro del dubbio (costruttivo), poiché ubi dubium ibi libertas, ciò che è espressione di un desiderio di futuro e di conoscenza più certa”. O, ancora: “La presenza e l’iniezione di giovani in una comunità scientifica e tecnologica così vasta è un ottimo correttivo alla tentazione dell’autocompiacimento… I giovani portano freschezza di domande e di proposte che tendono a rompere pregiudizii e acquisizioni ritenute pacifiche”. 3. Last, not least: Lucio Rossi, che dirige il gruppo Magneti & Superconduttori per il progetto LHC, colui che insomma progetta, costruisce (e ripara!) e ottimizza la “macchina” dell’acceleratore di particelle su cui operano squadre di fisici e ingegneri. Stabilmente al Cern dal 2001, ha fatto lui gli onori di casa con amabile efficienza fino al dettaglio, e svelando ai convegnisti i segreti dei magneti bi- e quadripolari e dei superconduttori che lanciano a velocità inimmaginabili le particelle elementari dell’anello.

Un’ultima postilla. Il fatto di sapere, come la Gianotti non ha mancato di sottolineare, che al Cern, cioè nel tempio della ricerca più avanzata, popolosa ed eterogenea su 10mila scienziati di 20 Paesi europei che operano o accedono, la componente nazionale più cospicua è data dai ricercatori italiani (non meno di 1500 persone tra giovani e veterani dello staff e collaboratori) dimostra che in Italia gli studi, non soltanto universitarii ma pure liceali, sono ancora di primissima qualità. Cerchiamo solo di difenderli, di mantenerli alti e, in generale, di estendere la qualità culturale ed educativa d’insegnamento lasciata in eredità dalla nostra tradizione.