In attesa che si trasformi in legge, e quindi con molte possibili correzioni, il disegno di legge sulla scuola approvato giovedì contiene delle misure dedicate all’intero sistema di istruzione, e non esplicitamente alle scuole paritarie, che però comportano, sia pure con mille cautele, delle possibilità di facilitazioni economiche. Nel dettaglio, si può destinare alle “istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione”, quindi autonome statali e paritarie, il cinque per mille (art.15); è previsto un credito di imposta per le erogazioni in denaro in favore dei medesimi istituti (art.16), e infine si possono detrarre dalle tasse le spese sostenute per la frequenza scolastica alle scuole dell’infanzia e del primo ciclo per un importo non superiore a 400 euro per studente (art.17). Lasciando da parte i commenti sull’entità delle misure e su quanto nel concreto succederà, è importante sottolineare che questo provvedimento segna una importante novità culturale, in quanto la frequenza alle scuole non statali non viene più vista come un indicatore di reddito (e quindi penalizzata) ma come fruizione di un diritto delle famiglie. 



Si tratterebbe, finalmente, di un tardivo allineamento a quanto accade negli altri paesi, europei ma non solo, dove da tempo è in atto un processo di valorizzazione delle istituzioni educative private, per due motivi: il primo, che la nostra Costituzione etichetta come “principio di sussidiarietà”, riconosce il ruolo pubblico delle scuole che nascono dalla società, purché rispettino alcuni requisiti fissati centralmente, mentre il secondo, forse meno nobile ma altrettanto importante, deriva dal fatto che il costo della scuola statale centralizzata, che pure ha avuto un importante ruolo storico, oggi non solo è inadeguato alla complessità crescente della domanda di istruzione, ma ha costi insostenibili. Provo a riprendere i punti salienti della questione, rimandando chi fosse interessato ad un maggiore dettaglio al volume recentemente curato da me e da Giorgio Vittadini (SOS educazione. Statale, paritaria per una scuola migliore, 2014)



Il diritto alla scelta nell’educazione dei figli è considerato dovunque un diritto di cittadinanza, e come tale è riconosciuto anche dalla normativa europea. Non si tratta di consentire ad alcuni gruppi di fruire di un privilegio, ma di garantire ad ogni famiglia la possibilità di educare il proprio figlio nel rispetto dei valori in cui crede, purché compatibili con i valori costituzionali. Il concetto di scuola “pubblica”, introdotto in Italia con grave ritardo dalla legge 62 del 2000, non coincide con “scuola statale”, ma indica l’esistenza di un sistema integrato in cui le istituzioni scolastiche, indipendentemente da chi le gestisce (lo stato, gli enti locali, un ente senza fini di lucro o un proprietario in senso stretto) svolgono un servizio pubblico, regolato e valutato centralmente. Ma il diritto di scelta non è tale se comporta una penalizzazione economica grave, come accade in Italia, dove può esercitarlo solo chi ha i mezzi per pagarselo, con l’esito distorto che la scuola paritaria viene considerata “per ricchi”, e gli studenti, tanto rumorosi quanto poco informati, scendono in piazza a gridare che si vogliono rubare i soldi alla scuola pubblica.



L’obiettivo finale più soddisfacente è secondo me un diverso modello di finanziamento dell’intero sistema, in cui lo Stato rinuncia alla gestione diretta, che gli impedisce di fare quasi qualsiasi altra cosa (come dimostra lo spazio esorbitante dedicato alla questione insegnante), conservando funzioni fondamentali di programmazione, valutazione e ricerca. Le scuole autonome, o le reti di scuole, ricevono fondi proporzionali al numero di studenti iscritti, e li gestiscono liberamente, rendendo poi conto di quanto hanno realizzato. Possono scegliere i dirigenti e gli insegnanti in base alle proprie esigenze didattiche, e possono utilizzarli in modo flessibile, incentivarli e premiarli e, se del caso, licenziarli. 

Sono abbastanza realista da pensare che questo modello incontrerebbe resistenze fortissime, benché le ricerche dimostrino che i sistemi che lo hanno adottato ottengano ottimi risultati. I sindacati, che mi pare siano pesantemente intervenuti sul disegno di legge, difficilmente accetteranno che sia la scuola a decidere, all’interno di standard fissati, di quali e quanti insegnanti ha bisogno, e quanto intende pagarli, fatti salvi i minimi fissati dai contratti di categoria, per cui la strada su cui si sono incamminati quasi tutti i paesi europei non è per noi percorribile, e non lo sarà ancora per un pezzo. 

Ci sono però altre misure che, più realisticamente, consentirebbero di accrescere il diritto alla scelta delle famiglie (una ricerca svolta nel 2010 su di un campione significativo stimava che circa l’8% di genitori mandavano i figli alla scuola statale solo perché non potevano pagare le rette delle paritarie). La prima e più immediatamente percorribile, scelta dal disegno di legge, è quella di prevedere qualche agevolazione fiscale per le spese per l’istruzione, per tutti, o per chi non supera una certa soglia di reddito, ipotesi che avrebbe probabilmente più successo nella pubblica opinione; poiché però mira a ridurre almeno in parte l’ingiustizia per cui alcune famiglie pagano due volte, con la fiscalità generale e con le rette, e in più non ricevono nessun servizio, in teoria dovrebbe riguardare tutti. Ho stimato qualche anno fa che una famiglia con due figli “regala” allo Stato circa 12mila euro l’anno, a cui si aggiunge la spesa della retta: i conti dovrebbero essere aggiornati, ma non credo proprio che la cifra sia diminuita. 

La proposta del buono scuola è invece esplicitamente indirizzata a consentire a famiglie con reddito medio basso di mandare i propri figli in una scuola privata; l’esempio più articolato è quello della “dote scuola” in Lombardia. Questa scelta non comporta la valutazione che la scuola non statale è migliore della statale, semplicemente la preferenza per una scuola confessionale, o che adotta un metodo particolare (montessoriana, steineriana…) o che ha caratteristiche che le famiglie ritengano importante. In entrambi i casi, facilitazioni fiscali o buono scuola, le finanze statali potrebbero ricavarne un beneficio se lo spostamento verso la scuola non statale, meno costosa, compensasse il sostegno finanziario. 

Questo richiederebbe un mercato del lavoro degli insegnanti meno ingessato e una serie di stime dei costi e dell’eventuale punto di equilibrio fra finanziamenti e risparmi, e la resistenza è legata al probabile rifiuto di mettere in discussione i criteri di reclutamento e carriera degli insegnanti. 

Un’ultima possibilità, particolarmente utile in un territorio frammentato come il nostro, è quella di moltiplicare le “scuole di scelta”, aprendo scuole basate su programmi specifici o trasformando del tutto o in parte una scuola statale, analogamente a quanto accade con le scuole charter negli Stati Uniti. Le scuole resterebbero gratuite, riceverebbero dallo stato una quota proporzionale al numero di studenti ma inferiore al costo studente di una scuola statale (di qui il risparmio), godrebbero di maggiore autonomia anche nel reclutare e gestire insegnanti e dirigenti, e dovrebbero dimostrare periodicamente di aver rispettato gli obblighi assunti al momento della costituzione. Gli insegnanti resterebbero a tutti gli effetti insegnanti statali e dovrebbero solo esprimere un accordo sui fini specifici delle nuove scuole  e accettare una maggiore mobilità.

Come si vede, a bloccare i finanziamenti per incentivare il diritto di scelta delle famiglie non è la mancanza di soluzioni “senza oneri per lo stato” (e anzi probabilmente con un risparmio), ma l’incapacità di uscire dai binari prefissati di uno stantio dibattito ideologico. Se pur con molti limiti il disegno di legge passerà e segnerà un avanzamento in questa direzione, incominciamo con il prenderne atto, puntando in futuro ad un miglioramento. 

(L’articolo è pubblicato oggi su L’ordine, inserto del quotidiano La Provincia di Como e Sondrio)