Gli uomini dell’Isis cavalcano a meraviglia la tecnologia moderna e la globalizzazione. Due fenomeni che la loro civiltà non ha saputo produrre e nei confronti dei quali li muove un contorto sentimento di ammirazione e di odio. Probabilmente anche quelli nati e cresciuti nelle più moderne capitali d’occidente hanno solo notizie incomplete e confuse della Rivoluzione francese e delle tecniche messe a punto a turno da girondini, sanculotti, montagnardi e giacobini che seppero coniugare al meglio i media del tempo, giornali, manifesti, feuilleton eccetera con il sublime spettacolo del terrore delle teste mozzate, rotolanti dai palchi delle ghigliottine, o portate in processione sulle picche, tra la folla spruzzata di sangue. Consapevoli o meno, i nuovi seguaci della dottrina del terrore superano i vecchi maestri parrucconi, non tanto per le tecniche di sgozzamento e decapitazione decisamente più ancestrali della modernissima ghigliottina, ma per lo sfregio inferto a uno degli ultimi topoi del sacro rimasti nella super secolarizzata post-modernità occidentale: l’infanzia innocente.



La scossa, come di un terremoto spirituale, che le immagini di bambini di pochi anni con i mitra a tracolla, con canne di fucile puntate a pochi centimetri dal viso, o le immagini, di questi giorni, del dodicenne (riconosciuto come Ryan dai compagni di classe di una scuola di Tolosa) che uccide a sangue freddo un uomo dell’età di suo padre, buttando un’ultima occhiata alla telecamera, disorienta non meno dei 140 corpicini dei bimbi fatti saltare in Pakistan da uno degli ultimi terribili attentati islamisti.



Se la notizia dei bambini soldato (vedi l’ottimo e documentato articolo di Adriano Sofri su Repubblica, 12 marzo), è stata metabolizzata con l’aiuto della lontananza geografica e del filtro dei media, l’immagine dei bambini boia è invece così perforante da costringere a cambiare canale, a chiudere gli occhi, a spostare l’attenzione su qualcosa di meno impegnativo per un pensiero abituato a funzionare sulla base dall’algoritmo del politically correct. A essere colpito (alla nuca) per il pubblico occidentale, è un paradigma interiorizzato con convinzione da ormai tre secoli, il paradigma del bambino icona di innocenza. Un’innocenza iniziale e universale inventata da Jean Jacques Rousseau, che non esiste in natura, di cui non c’è traccia nel catechismo, ma soprattutto che non esiste nel bambino.



Il paradosso di Massimo Recalcati (“Così trasformano l’innocenza nel crimine più efferato”, Repubblica, 12 marzo) continua a pagare dazio al mito rousseauiano, nonostante la lezione di Agostino che riconobbe sentimenti di invidia e gelosia — l’odio è lì a un passo — addirittura nel neonato e la volontà di fare il male nel ragazzino. Nel caso specifico il ragazzino era lui stesso.

Non si tratta qui di colpevolizzare l’infanzia ma di riconoscere in filigrana, nella capacità di efferatezza del bambino, una competenza pervertita, ma pur sempre una competenza. Non va dimenticato che il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai ha dato vita al suo blog di protesta anti-talebana a soli 11 anni. Un bambino è in primis un soggetto capace, non un soggetto incapace. Non è un foglio bianco su cui chiunque può scrivere ciò che vuole, e neppure un alienato ab origine nelle patologie — perversioni comprese — dei suoi altri. È titolare di un principio che Freud nomina di piacere, un primo articolo di una carta costituzionale civile e pacifica di uno stato senza eserciti, ma non senza difese. 

Uno stato che potrà subire occupazioni e venire assoggettato dai peggiori regimi, ma mantiene viva, nella catacombe o nel samizdat, nella resistenza attiva o nella disubbidienza passiva, il desiderio di far di nuovo volare gli aquiloni alla morte del tiranno. Questo è anche il mio personale augurio al ragazzino adultizzato, che non trema — o così pare — mentre uccide. No pasaràn!