L’uomo non è mai qualcosa ma è sempre qualcuno. Lo prova il fatto che nel profondo della sua natura simbolica è iscritto il codice di un processo di identificazione del Sé. Questa ricerca di identificazione si rivela, fin da piccoli, nel disegnare la propria mitografia personale rappresentata da quell’universo di eroi ed eroine che fanno scattare un’attività mimetica, imitativa di modelli nei quali la natura del bambino si riconosce e si esalta.
Inizia così la rappresentazione del mondo nel quale si può vivere l’innato desiderio di protagonismo, il desiderio cioè di essere dei soggetti, non degli oggetti. Ed è proprio la realtà dei bambini, così vulnerabile, che non può essere oggetto di sperimentazioni: infatti ogni sperimentazione, lo sappiamo, comporta sempre un aspetto di rischio legato all’esito dell’esperimento azzardato.
Colpisce la noncuranza di ogni elemento di prudenza contenuta nel Pari o dispari, il gioco del rispetto, progetto finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e promosso dal Comune di Trieste amministrato da una giunta di centrosinistra. Il progetto, che dovrebbe partire presto su 45 scuole dell’infanzia, prevede giochi in cui bambini e bambine sono sollecitati a travestirsi scambiandosi i ruoli maschi/femmine e imparando ad esplorare i rispettivi corpi, auscultandosi reciprocamente i battiti del cuore, a nominare i genitali per quello che sono, e altro. Evidentemente, ciò ha suscitato consensi ma anche aspre polemiche sia tra genitori, sia tra le forze politiche che hanno promesso interpellanze parlamentari. La vicesindaca Fabiana Martini difende l’operato del Comune e si trincera dietro la correttezza procedurale dell’iniziativa, che invece viene contestata da chi dissente radicalmente dall’iniziativa del Comune. Come se la (presunta) osservanza delle procedure burocratiche fosse garante di metodo e contenuti nel varare un’iniziativa così delicata, i cui effetti sui bambini possono essere imprevedibili. Senza stracciarsi le vesti, non si può tuttavia non riconoscere in tutto ciò la formidabile propaganda dell’ideologia gender e dei suoi sostenitori, che capiscono molto bene l’influenza della scuola sulla formazione della struttura psichica dei più piccoli ma anche dei loro genitori: infatti se certe iniziative le promuove la scuola, con i soldi della Regione, “deve essere una cosa buona perché ha il crisma dell’ufficialità”.
Comunque, al di là dei più abili tentativi, l’abolizione delle differenze è un atto impossibile. La differenza tra maschio e femmina non può essere né abolita né negata. Nessun potere culturale, sia quello dell’ideologia gender, sia quello dell’Isis, può impedire ai nostri sensi e alla nostra intelligenza quell’esperienza umana che riconosce la vera natura delle cose, il loro nome, la loro limpida trasparenza, la loro naturale attrattiva. A suo modo, lo riconosceva lo stesso Francis Bacon, il più pragmatico filosofo inglese che all’alba della prima rivoluzione industriale asseriva che “alla natura si comanda obbedendo”, altrimenti la natura, prima o poi, si vendica di chi le usa violenza.
Il travestimento poi, se non è l’indossare i panni dell’eroe ma l’entrare nelle vesti del sesso opposto, genera incertezze identitarie e paura di non essere più se stessi. Può essere un semplice gioco che si ama sperimentare negli asili, ma è un gioco d’azzardo sulla pelle di altri, i bambini, che non hanno gli strumenti per capire “a che gioco si gioca”.
Apparentemente diversa, invece, la cronaca milanese che ci racconta quanto accaduto al Liceo Scientifico “Da Vinci” di Milano. Una insegnante ha scritto un manifesto in cui esprime la sua opinione in merito al comportamento dei gay, che viene giudicato “innaturale”. Le reazioni non sono evidentemente mancate da parte degli studenti che hanno stigmatizzato con forza la professoressa accusandola pesantemente di atteggiamento discriminatorio e rivendicando l’assoluto diritto ad amarsi tra persone dello stesso sesso. L’accusa di omofobia oggi in Europa è la più semplice a formularsi e la più facile a propagarsi, sostenuta anche da una “raccomandazione” del Consiglio dei Ministri Europei del 2010 che invita a denunciare tempestivamente comportamenti, giudizi, frasi ritenute offensive e discriminatorie nei confronti dei gay. Dalla Scozia, all’Inghilterra, alla Francia, alla Spagna, all’Olanda non vi è Paese che non sia vigile su chi dovesse, anche solo intenzionalmente, palesare un giudizio di non apprezzamento verso chi dichiara esplicitamente il proprio diverso orientamento sessuale.
Sia lecito, però, eccepire su un punto: è giusto, nei confronti dei gay, relegarli ad essere una sorta di “categoria protetta” e fare di alcuni di essi, magari i più bravi, i più capaci, i più belli, delle icone del nostro tempo? Ed ancora: due uomini, due donne, possono amarsi (ed esibirsi) come si amano un uomo e una donna che accettano anche di rischiare insieme la costruzione di una famiglia, sostenuta dall’amore che non è solo sessualità? La sessualità da sola, animata (o appannata) dalla fugace emotività del momento, conosce anche l’usura del tempo, la noia, l’isterilirsi di un legame che ha perso vigore. Il pansessualismo dei nostri tempi non è la deregulation dei sensi ma l’atrofia del desiderio. Così il Potere, indebolendo la famiglia, incentivando altri tipi di rapporto ove tutto è permesso e incoraggiato, precarizza la vita e i legami, disincentiva il rischio di chi, per amore, vuole generare, frantuma assetti consolidati in una miriade di persone atomizzate nella loro solitudine.
Certo, servono leggi migliori, sicuramente è legittimo opporsi a quella che molti ritengono una deriva, ma ciò che alla fine può far cambiare direzione e può liberarci tutti è solo l’esuberanza di una positività affettiva ed educativa, germe fecondo che può rigenerare un popolo.