LIPSIA — Da tredici anni offro un corso di filosofia — non obbligatorio — nel nostro liceo in Sassonia-Anhalt (Droyssig) ai ragazzi, a partire dalla decima classe fino alla maturità, nella dodicesima classe. Vorrei tradurre qui il compito in classe di una ragazza, Laura Schlenzig, che ha compiuto l’altro giorno 18 anni, della dodicesima classe. Ovviamente non lo faccio per la precisione filologica del suo lavoro (sebbene molte cose che dice siano precise anche a questo livello), ma perché fa vedere come il dialogo in classe possa risultare stimolante. Mi sembra che il risultato, in questo “tempo di guerra e di immigrazione”, possa far riflettere tutti.
Lascio la parola a Laura.
« Come ragazza di 18 anni, che è cresciuta in Germania, il concetto di “guerra” è fondamentalmente un Fremdwort (parola straniera). Ovviamente ho un’idea di cosa essa sia, ma la sua portata mi è incomprensibile, perché io conosco solo tempi di pace. Allo stesso tempo quando leggo il giornale o vedo il telegiornale non si parla quasi mai di pace, piuttosto di lotte e inimicizie. Anche Immanuel Kant si è fatto molti pensieri su questo tema nel suo scritto del 1795, Zum ewigen Frieden (“Sulla pace perpetua”). Secondo Kant ci sono tre presupposti per la pace: 1. Gli stati devono avere una struttura repubblicana; 2. Devono essere organizzati in modo federalistico; 3. Devono essere ospitali, nel senso di un modesto “diritto di visita” e non di un più accentuato “diritto di ospitalità”. Nel testo su cui dobbiamo riflettere nel compito in classe, preso dai primi due preamboli, vengono spiegate le condizioni in cui non può essere raggiunta una “pace eterna”. Kant afferma che la pace non può essere raggiunta da chi pianifica per il futuro una guerra. In questo caso si tratterebbe piuttosto di una “tregua”, nel senso di un “cessate il fuoco”. Questi pensieri sono per me molto importanti, perché mi permettono di chiedermi cosa sia la pace. Distinguerei tra una “pace passiva”, che in fondo è solamente la “mancanza di guerra”. Una vera pace è una “pace attiva”, che implica anche la libertà per gli individui di uno stato. Implica il diritto all’educazione, alla libera comunicazione della propria opinione, alla libertà religiosa, eccetera. Se ciò che Kant definisce una “tregua” viene considerata come “pace”, questa sarebbe piuttosto una “pace passiva” di breve durata; qualcosa come un Herrschafsfrieden (pace in forza di un dominio), che può esistere solamente perché non è data la possibilità di fare la guerra o perché uno degli stati reprime l’altro. Ciò nega ovviamente la premessa del “federalismo”. Questa “pace in forza di un dominio” non può essere ovviamente la “pace eterna” di cui parla Kant, perché ovviamente lo stato o gli stati dominati avranno sempre il bisogno di fuggire con delle rivolte dal dominio subìto, per raggiungere un'”autonomia”, che è definizione necessaria del proprio sé.
In riferimento a quanto detto mi sono chiesta se può esserci una “pace eterna” ed estesa a tutto il mondo, perché esistendo degli stati che vogliono raggiungere solo una “pace passiva basata sul dominio” (come forse gli Usa) mentre altri stati (come in Europa) non ritengono questa pace una pace autentica, manca così un “comune denominatore”, lo scopo comune, che si dovrebbe raggiungere. Secondo me (meglio, secondo il mio modo di vedere europeo) pace implica anche libertà (e non solo sicurezza). Questo significa anche che non posso avere come intenzione ultima quella di imporre ad altri stati o ad altre culture il mio modo di vedere. Secondo Kant è necessario eliminare le causa della guerra. Sono d’accordo con lui se si tratta di problemi territoriali o culturali. Oggi abbiamo istituzioni come l’Onu che rendono possibile un dialogo tra gli stati, ma secondo me il motivo ultimo per la guerra è l’avidità. Per quest’ultima alcuni stati non sono disponibili a rinunciare a territori e ad accontentarsi di quelli che hanno attualmente (così come fa la Russia nei confronti dell’Ucraina). Il tema dell’avidità riguarda anche noi qui in Germania: essa è il motivo per cui qui da noi alcune persone non vogliono rinunciare ad un poco del loro benessere per accogliere più profughi in Germania. Purtroppo l’avidità è un fenomeno umano, fa parte della natura dell’uomo [bisogna tenere conto che Laura, che appartiene alla chiesa battista, tende forse inconsciamente alla lettura evangelica della “natura totaliter corrupta”, nda] e per questo motivo non penso che gli uomini possano eliminarla completamente. Kant non giudica l'”onore di uno stato” in forza della grandezza del suo territorio, definendo lo stato stesso come una “società di uomini” (preambolo n. 2). Ciò significa che nessuno stato può essere, in qualsiasi modalità si voglia, “preso” o “comprato” da un altro stato. In questo senso una pace basata sul dominio non è tale né duratura. Kant valorizza anche piccoli stati e si contrappone in questo al pensiero di Dante [cfr. Herfried Münkler, di cui abbiamo parlato nel mio corso, nda]. Dante pensa che solo un “imperio” può portare la pace e che per quest’ultima è necessario un solo “sovrano”, perché altrimenti si arriverà necessariamente ad una divergenza di opinioni. Ovviamente da una parte penso anch’io come Kant che una “pace basata su un contratto” sia più autentica e desiderabile che una “pace basata sul dominio”. D’altra parte però devo dare ragione anche a Dante: so, in forza dell’esperienza, che laddove più persone hanno il diritto di parlare e decidere è difficile trovare un compromesso. In Africa per esempio tante piccole tribù si fanno la guerra. Certo non è una guerra atomica, ma una guerra è pur sempre una guerra. In questo caso quasi si deriderebbe una “pace basata sul dominio” che lo stato attuale. Kant dice anche che a nessuno è lecito dominare su una società di persone, a parte quelle del proprio stato.
Questo significa che l’Isis, che vuole dominare su altre società di persone, è alcunché di assolutamente riprovevole. Kant però non sembra specificare chi possa governare una società che pian piano cambia il suo carattere o la sua cultura. Parla di un’ospitalità, ma non pretende di integrare stranieri nella propria società. Non ho potuto neppure trovare nessuna risposta sul come ci si debba comportarsi con persone che non hanno una patria o che non hanno più un proprio stato. Credo che sarebbe cosa buona avere un diritto di ospitalità più accentuato di quello di Kant: che cosa impedisce all’uomo di dare ad un ospite più di ciò che è strettamente necessario, se se ne ha la possibilità? Kant dice che non si può pretendere un “diritto di ospitalità” come ne parlo io, ma non dice che non si debba accogliere altre persone. In breve: penso che uno stato ricco debba riconoscere a degli uomini che vengono nel proprio stato per una necessità o un bisogno, con cuore aperto, un diritto di ospitalità più accentuato di quello di Kant, anche se non sempre il diritto di cittadinanza. Infine vorrei dire che come europea sono d’accordo con quasi tutti i pensieri di Kant, ma riconosco che la sua idea di una “pace eterna” è un modo molto europeo di risolvere i problemi e per questo è difficile pensare che possa estendersi a tutto il mondo. Sono d’accordo anche con l’idea di papa Francesco di una multipolarità mondiale di “stati continenti” (Alberto Methol Ferré). Allo stesso tempo devo però precisare che non si può pretendere da altre culture di accettare dialoghi e compromessi che non corrispondono alla loro natura, perché ciò sarebbe anche una forma di sottomissione dell’altro, cioè di “pace basata sul dominio” ».
Laura è stata una delle ultime a ridarmi il compito in classe. Ovviamente ci sono nell’esposizione anche alcuni salti logici o per esempio obiezioni che non sono proprio molto plausibili, come per esempio l’ultima a papa Francesco, perché l’dea stessa della multipolarità implica una comprensione della differenza degli approcci culturali. Credo però che sia motivo di speranza vedere dei giovani pensare a questo livello sui problemi del mondo. Speranza anche per la filosofia stessa come linguaggio introduttivo alla comprensione del reale.