“Un mese di vacanza va bene. Ma non c’è un obbligo di farne tre. Magari uno potrebbe essere passato a fare formazione. Serve un più stretto rapporto tra scuola e mondo del lavoro e questa è una discussione che va affrontata, anche dal punto di vista educativo”. 

Lo ha detto il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, parlando a Firenze al convegno sui fondi europei e il futuro dei giovani promosso dalla Regione Toscana. L’intervento su questo punto è stato salutato da un applauso dei presenti al Palazzo dei Congressi.



Povero Poletti, non conosce la situazione scolastica complessiva italiana. E così anche coloro che lo hanno applaudito. Certo, aumentare il rapporto scuola lavoro è sacrosanto, ma non in estate. L’estate in Italia, oggi, è la camera di decompressione di una realtà annuale della scuola che ormai vive in apnea e aspetta solo le vacanze per respirare.



Ho confrontato quattro quotidiani per seguire il dibattito sulla dichiarazione fuori campo di Poletti. Il Giornale di Sallusti da il massimo risalto in prima pagina, parla di “rivoluzione a scuola” ma poi glissa e non approfondisce, Il Giorno sempre in prima pagina parla di “Vacanze sotto tiro”. Seguono due pagine di servizi e di confronti europei. Il Corriere ha solo un piccolo occhiello in prima pagina e poi a pagina 21 un approfondimento blando che confronta le situazioni europee e tutto sommato non drammatizza. Repubblica non cita quasi nemmeno la questione in prima pagina data la piccolezza del richiamo. Poi, sempre a pagina 21, un blando approfondimento a cui segue, in basso, un breve intervento di Benedetto Vertecchi, guru della pedagogia di sinistra, il quale sdrammatizza e dichiara sommessamente che il “nostro calendario scolastico” è tra i più lunghi d’Europa e che l’unica è spezzare le vacanze estive e distribuirle.



Mi sembra di cogliere un disagio ormai, a cui forse hanno contribuito quelli come me, ad affrontare davvero, specialmente nelle testate più autorevoli, la questione del tempo scuola dei nostri giovani. Sono diventati tutti prudenti. Il tempopienismo si nasconde. A parte il neofita Passera, che ha messo nel suo programma il tempo pieno obbligatorio per tutti.

Ma i numeri, le quantità  del curricolo annuale, vengono oscurati. Nessuno osa ancora dire che il curricolo minimo in italia è di 1000 ore l’anno mente la media europea è di 800. Dico minimo perché nei tecnici e nei professionali con 32 ore settimanali si arriva a 1066 ore annue e nel tempo pieno di media ed elementare si arriva a 1200-1300 ore annue.

L’allergia italica verso le analisi quantitative è vecchia. Qui si tende al filosofico e l’analisi della quantità e del tempo è disprezzata dagli intellettuali seriosi. Anche se dietro le quinte, per motivi indicibili, proprio la quantità ed il tempo sono i più ricercati.

Si commette quindi, senza che nessuno batta ciglio, un altro sbaglio clamoroso nel dichiarare che in Italia i giorni di scuola obbligatori sono 200. No: sono 200 se la frequenza comprende il sabato, ma con la settimana corta diventano 167 perché l’obbligo di legge non è nel totale dei giorni ma delle settimane. Obbligatoria è la distribuzione delle lezioni su 33 settimane più due giorni.  

Ma l’oscuramento ancora più assoluto, incredibile e tenace è su una parolina: opzionalità. Nessuno osa nemmeno configurare la possibilità che si esplichino nel corso dell’anno attività libere, opzionali, che tengano quindi conto delle differenze tra territori e persone.

Si cita universalmente l’autonomia scolastica che prevede differenze (per ora invisibili) tra un istituto e l’altro ma non si deve parlare di curricolo essenziale e di attività opzionali. Una paura incomprensibile, perché con un curricolo essenziale europeo uguale per tutti si farebbe molta chiarezza su varie questioni. 

In primo luogo su quale sia il tempo da dedicare ai programmi. Nessuno ha mai spiegato nelle elementari quale sarebbe la differenza tra il programma svolto nel modulo (teoricamente possibile) di 24 ore settimanali e quello del modulo di 30 ore.

In secondo luogo l’osservazione dell’offerta e delle scelte opzionali praticate dallo studente darebbero concreti elementi per l’orientamento scolastico e professionale. Infine anche la sperimentazione e l’esplorazione di terreni culturali impervi e controversi sarebbe resa possibile ed utile dall’opzionalità, consentendo sia l’adesione che il rigetto da parte dell’utenza. 

Qualcuno parla di costi aggiuntivi, ma portare il curricolo a livelli europei consentirebbe un risparmio sulla spesa ordinaria di lezione intorno al 20%, trascurando il tredicesimo anno di studi. Con questo risparmio si potrebbero impiantare innumerevoli attività opzionali nei periodi più disparati dell’anno ed anche svolgere consistenti attività di recupero.

Uno spazio quindi utilissimo, non costoso, flessibile. Aggiuntivo rispetto alla necessaria stabilità e universalità del curricolo essenziale. Uno modello quindi di verità e di libertà di cui stranamente sembrano meno desiderosi proprio i professionisti dello stile “liberal”.