Con la circolare ministeriale n. 3 del 13 febbraio scorso, sono stati messi a regime — sia pur in forma ancora sperimentale — i nuovi modelli nazionali di certificazione delle competenze a chiusura del primo ciclo di istruzione (classi quinte della scuola primaria e terze della secondaria di primo grado).

La legge 53/03 stabiliva che il rilascio della certificazione fosse in capo all’istituzione scolastica frequentata dall’allievo: fu allora che le singole scuole cominciarono ad “adottare strumenti certificativi elaborati autonomamente in ogni realtà territoriale”. Ora, con il testo della CM n. 3, si “consente di procedere all’adozione di un modello di certificazione nazionale destinato a fornire un quadro di riferimento finalmente unitario e coerente”. A corredare detti modelli, sono state stilate apposite “Linee guida” offerte a tutte le scuole per “un’adozione graduale e sperimentale” della certificazione delle competenze.



La preoccupazione che sottende tale processo è da intendersi come “la valutazione complessiva in ordine alla capacità degli allievi di utilizzare i saperi acquisiti per affrontare compiti e problemi, complessi e nuovi, reali o simulati”(cfr. Linee guida per la certificazione delle competenze nel primo ciclo di Istruzione, Premessa). 



E’ interessante notare quindi, proprio nelle Linee guida, come si evidenzi la svolta che tale certificazione vorrebbe e dovrebbe comportare: “imporre — cioè — alla scuola di ripensare il proprio modo di procedere”. E’ chiaro, fin dalle prime battute di questo testo, che “progettare l’attività didattica in funzione delle competenze e della loro certificazione, richiede una professionalità docente rinnovata e attenta alle domande, più o meno implicite degli alunni”.

Si tratta di una sfida che ci trova, io credo, piuttosto impreparati. 

L’intero sviluppo delle Linee guida ha il sapore e la consistenza di un sostanzioso trattato di pedagogia e rischia di scoraggiare più che di orientare il docente medio che vive la certificazione delle competenze come l’ennesimo adempimento che va ad aggiungersi ai mille altri di fine ciclo: voto di ammissione all’esame, gestione del colloquio  orale, correzione pomeridiana della prova nazionale Invalsi, compilazione dei Consigli orientativi da copiare uno a uno sugli statini, ratifica delle prove scritte… 



Con questo non voglio vanificare cinicamente il contributo del ministero dell’Istruzione azzerandone la portata che resta di indubbio valore. Mi chiedo tuttavia su quale terreno affondino le loro radici tante delle affermazioni condivisibili contenute nel testo. L’impostazione educativa e didattica delle nostre scuole ritengo sia ancora lontanissima dall’orientare le pratiche valutative “verso una dimensione di valutazione autentica connessa alla promozione di tutte le caratteristiche della personalità degli allievi e dei loro talenti”.

Cultura, scuola, persona: titola così il paragrafo 1.2 del testo delle Linee guida. Vi si contestualizza l’azione educativa della scuola e dei docenti nel quadro dell’attuale scenario culturale di complessità e pluralità: nell’evidenziare la centralità dello studente in tutti gli aspetti dell’azione educativa, si sottolinea come “i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma verso persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato”.  

Siamo ancora una volta di fronte ad un’emergenza educativa che continua a chiamare in causa gli adulti, ben prima dei ragazzi!

La nuova prospettiva cui la certificazione delle competenze apre, sembra dunque richiedere al corpo docente di “ripensare il modo di fare scuola, integrando la didattica dei contenuti e dei saperi con modalità interattive e costruttive di apprendimento”. Si intende insomma fondare l’insegnamento su esperienze significative che consentano di imparare facendo al fine di rendere l’alunno protagonista del processo di acquisizione delle competenze stesse.

Che dire? Se mi ripenso in classe, se ripenso al volto di ciascuno di quei circa sessanta ragazzi con i quali ogni mattina ho a che fare nelle tre classi in cui insegno, mi sembra che qualcosa di simile, già accada… Ma è sufficiente, mi chiedo, a garantire la salvaguardia di quella dimensione educativa e orientativa che la certificazione delle competenze dovrebbe favorire e incrementare?

Indubbiamente quello messo in campo dal ministero rappresenta un ulteriore stimolo e sollecitazione a collocarsi nella prospettiva di una reale innovazione per evitare di sclerotizzarsi in schemi rigidi e obsoleti. 

E tuttavia c’è — io credo — qualcosa che viene prima. 

Un giovane amico insegnante raccontava che, dialogando con i suoi alunni sui noti fatti di Parigi, emergeva in tutti una naturale repulsione sia per l’integralismo islamico sia per una satira inutile, e così gli chiedevano: “Se la storia ci insegna che spesso ci vogliono secoli per scardinare posizioni ataviche, noi che cosa possiamo fare?” E lui: “Noi possiamo evitare di rimanere schiacciati dagli eventi solo se partiamo da un bene presente”. E loro: “Qual è dunque questo bene?” Ecco, proseguiva l’amico: “questi ragazzi sono subito diventati per me un punto di autorevolezza. sono realmente misteriosi per me… Mi sono accorto che stanno scoprendo di  avere un cuore”. 

Ed io pensavo, ascoltandolo, che forse è proprio questa la vera competenza da certificare.