Il cuore della “Buona Scuola” di Renzi sta — per ora — nel potenziamento dell’autonomia scolastica. Una autonomia che, lo sappiamo, non può sussistere senza il principio di responsabilità. Perché non è mai decollata l’autonomia? Perché in Italia manca una trasparente cultura dei risultati, non solo delle intenzioni.
In poche parole, è sempre stata contrastata una trasparente etica delle responsabilità, capace di andare oltre le singole disponibilità di tanti presidi e docenti che ogni giorno mettono cuore e passione nel loro lavoro; la stragrande maggioranza, ma a titolo personale, senza alcun riconoscimento, anche stipendiale.
Si è sempre preferito, nel mondo della scuola, nascondersi dietro a forme assembleari, a logiche collettive, mentre, è bene chiarirlo, la responsabilità è sempre personale. Anzitutto personale, pur conoscendo tutte le variabili che, comunque, interagiscono nelle scelte personali e di gruppo.
Il mondo della scuola è, proprio per questo motivo, l’ultimo baluardo della negazione di questa responsabilità personale. Ovvia, invece, in tutto il mondo del lavoro.
Per accorgersene basta scorrere velocemente la rabbia di tanti docenti nei confronti della proposta di riconoscere ai presidi un ruolo strategico nella nuova scuola immaginata dal governo. Mentre, cioè, è oggi assodato che gli studenti devono essere valutati secondo il merito (chi ricorda più il vecchio “sei politico”?), i loro valutatori non dovrebbero a loro volta essere giudicati da nessuno.
Nello stesso tempo però manca anche un altro passaggio decisivo, in questo recupero del principio di responsabilità. In sintesi, noi siamo ancora lontani dall’esperienza Lean, essenziale oggi nel mondo del lavoro. Che cosa dice questo metodo? Che è essenziale prevenire errori e disservizi. Non solo. Che tutti i lavoratori devono essere messi nelle condizioni di “fare bene le cose già dalla prima volta”. In altri termini, se uno sbaglia è il suo capo (un tempo i presidi erano chiamati “capi di istituto”) che si deve assumere per primo la responsabilità dell’errore, perché, appunto, non l’ha messo nelle condizioni di non sbagliare. Poi, ovviamente, ognuno dovrà mettere in campo le sue reali competenze. Ma è il suo responsabile che dovrebbe per primo rispondere del disservizio.
Questa riflessione vale per i docenti nei confronti degli studenti, ma vale anche per i presidi nei confronti dei docenti e del personale Ata.
Sono i presidi oggi messi nelle condizioni di assumersi questa responsabilità? Ma anche i direttori generali nei confronti di quei presidi che si nascondono dietro a logiche minimaliste o ad atteggiamenti autoritari? Non solo, e qui sta il punto forse più critico: i presidi, come leader e punti di riferimento, sono oggi riconosciuti tali dai loro collaboratori (docenti e Ata)?
Senza questo quadro di riferimento è comprensibile il violento attacco, da parte di tanti docenti, all’art. 7 del ddl sul nuovo ruolo dei presidi relativo alla chiamata dei docenti da Albi regionali, oltre che su altri aspetti.
L’automatismo delle graduatorie offriva una sorta di difesa rispetto a possibili autoritarismi, anche se tutti vedevano il loro non senso perché una cosa è sapere una disciplina, altra saperla insegnare. Lo stesso discorso vale anche per i presidi, nonostante il margine, raramente utilizzato, di governo delle nomine triennali da parte dei direttori regionali.
Al di là, dunque, dei vari formalismi, conta l’efficacia di un servizio. Nel caso delle scuole, è centrale che il preside dimostri sul campo equilibrio, capacità di fare squadra, apertura all’innovazione, sensibilità per le nuove domande formative dei nostri ragazzi. E’ cioè fondamentale che venga riconosciuto nella sua autorevolezza.
Per questo motivo, allo scadere del mio incarico triennale presso la mia scuola, un liceo di oltre duemila studenti, ho preso la decisione, in solitudine, di chiedere a tutti gli operatori della scuola, cioè non solo ai docenti ma anche agli Ata, se erano d’accordo sulla conferma o meno del mio incarico di “loro” dirigente scolastico. Sapendo bene che la vera valutazione è sempre preferibile sia esterna, tastare con mano — con un voto segreto — la condivisione di tutti i collaboratori penso sia più di un atto dovuto.
Il risultato per me è stato a dir poco lusinghiero: su 160 docenti solo due voti contrari, su 45 Ata solo due voti contrari.
Nella scuola realmente autonoma non dovrebbero essere i consigli di istituto rinnovati, rappresentativi anche degli enti locali, che potranno scegliere il proprio dirigente? Credo che dovrà diventare un passaggio necessario, ai fini di un reale autogoverno delle comunità scolastiche.
Per concludere, non esiste l’uomo solo al comando, ma solo una responsabilità che va condivisa.
Tutti coloro, cioè, che sono chiamati ad una responsabilità dovrebbero verificare la disponibilità del gioco di squadra propria e dei propri collaboratori. E questo deve valere per tutti. Anche per i docenti, con questionari di gradimento degli studenti.
Perché, alla fine, contano i risultati, e questi possono essere garantiti solo se tutti, al di là di contratti e stipendi, sono disposti a credere al lavoro in comune.
Per questo motivo ho fatto questo passo, ho preso cioè la decisione al buio di lasciarmi valutare. Non si tratta, è bene precisarlo, di inseguire populisticamente il consenso, ma di chiedere la condivisione di una idea di scuola.