Adesso che la “Buona Scuola” ha subito la sua battuta di arresto, è forse possibile riaprire un confronto sul tema che sottende tutta la riforma dell’istruzione, ossia quello dell’educazione. Questa parola, sostituita da termini più tecnici, è andata via via scomparendo dalla discussione pubblica e pare che nessun governo sia davvero disposto ad affrontarla: essa, insomma, è una sorta di convitato di pietra al processo riformatore della scuola italiana e della scuola in generale. 



L’Occidente, infiacchito dal relativismo etico e conoscitivo, sente emergere da questa parola almeno tre domande che qualunque legislatore contemporaneo vorrebbe evitare di porsi, ma che interpellano impietosamente chiunque abbia concretamente a che fare con qualcuno che necessita di essere educato, ossia “chi è che realmente educa”, “chi sono coloro che ci troviamo ad educare” e “che cosa vogliamo dire, come comunità pubblica, a tutti quelli che stanno vivendo — o stanno per vivere — il processo educativo stesso”. 



Queste tre questioni, benché quasi elementari, spaventano molti operatori e commentatori del settore mettendo a nudo la crisi profonda della nostra società che non solo non sa più chi è, ma che non ha neppure deciso che cosa essa vuole diventare. Francamente credo che il punto di partenza più adeguato per iniziare il dialogo su questo fronte sia quello che riguarda l’identità di coloro che ci troviamo ad educare. 

C’è una notizia, infatti, che non finisce sui giornali ma che qualunque formatore, insegnante o sacerdote potrebbe raccontare: si tratta della grande fatica che tutti oggi fanno nel trasmettere ai giovani qualcosa che sia davvero solido e significativo, qualcosa che — insomma — sia per sempre e sia totalmente “loro”. Parlo di giovani perché credo che essi, ancor più dei bambini, ci forniscano le coordinate migliori per cominciare ad orientarci in quella che la Chiesa italiana ha voluto non a caso chiamare “emergenza educativa”. 



Nell’adolescenza, infatti, si palesano i tratti di fondo dell’umanità di un’epoca, apparendoci in tutta la loro drammatica verità senza albi, senza confini e senza inutili deformazioni. Monsignor Luigi Giussani, trent’anni fa, rilevava un cambiamento strutturale nella coscienza dei giovani che incontrava, un cambiamento che — oltre a renderli diversi dai primi studenti che aveva incontrato negli anni cinquanta — faceva emergere una sorta di “effetto Chernobyl” che in apparenza aveva lasciato le persone uguali a quelle di prima, ma che — in profondità — le mutava radicalmente, slegando la loro identità dal rapporto con la realtà e lasciandoli in balia della “moda”, ossia di una mentalità ondivaga e capricciosa che non permette a niente di essere realmente incontrato e quindi accolto, vissuto, fatto proprio. 

Oggi, a trent’anni di distanza, possiamo dire che non solo don Giussani aveva ragione, ma che la situazione, comprensibilmente, si è ulteriormente evoluta. Siamo di fronte ad un nuovo effetto, che non è ingiusto definire “effetto Apple”, e che è diretto discendente dell’effetto Chernobyl illustrato dal sacerdote di Desio: esso si condensa in quel pronome inglese — — che accompagna la maggior parte delle espressioni comunicative del nostro tempo: iPhone, iPod, iPad… sono tutti modi per dire, infatti, che il mondo inizia e finisce con me. Lasciato privo del rapporto con la realtà l’uomo, quindi, si è ritrovato in un mondo il cui orizzonte coincide con lui stesso e con la sua coscienza: gli adolescenti, mai come oggi, ci appaiono imprigionati in loro stessi da quello che sentono, da quello che pensano e da quello che vogliono. 

Senza paura di osare troppo possiamo affermare, con una certa forza, che oggi è la mente, e non il corpo, il vero carceriere dell’anima. Assorbiti totalmente nei loro pensieri, i nostri giovani sono costantemente impegnati a soddisfarsi e a contemplare se stessi, mostrando di non avere più spazio per nessuna delle nostre parole o dei nostri “esempi”, in modo tale che tutto giunge loro come un’eco di una voce lontana che non riesce a distruggere la stanza di ghiaccio in cui la loro stessa mente li ha rinchiusi. Questo non vuol dire che essi siano cattivi o non pensino agli altri, ma vuole sottolineare un problema di coscienza che — nella concretezza dell’esperienza — diventa sostanzialmente un problema di fedeltà e di tenuta, dentro le circostanze, delle decisioni che assumono o delle cose che essi capiscono. 

Ma il punto non è nemmeno del tutto qui. Infatti, ostaggio di quello che sentono, che pensano e che vogliono, i ragazzi sperimentano sempre più spesso anche una discrepanza tra ciò che avvertono e ciò che desiderano, tra la percezione che hanno del reale e ciò che veramente vorrebbero dalla realtà. 

Ed è qui che entra in gioco un secondo decisivo fattore per comprendere davvero coloro che abbiamo davanti quasi tutti i giorni: essi, infatti, non potendo sopportare spesso le emozioni che provano, gli echi che in diversi modi arrivano loro dalla realtà, cercano di cambiare quello che sentono “facendo qualcosa”. Nel giardino di Adamo, il serpente tenta la donna rendendola consapevole di una situazione di oggettiva ignoranza e insoddisfazione e non la invita ad assumerla fino in fondo, ma la spinge ad agire per cambiarla. C’è una strana equazione dentro di noi tra sentire e fare che presiede alla radice tutti i nostri comportamenti distorti per cui, in definitiva, noi facciamo — agiamo — per mutare il nostro umore, le nostre emozioni, e non per interagire davvero con la realtà che sentiamo e che “ci viene addosso”. 

Quante volte, anche per noi cosiddetti “adulti”, nei gruppi giovanili o nei consigli di classe l’obiettivo non è quello di incontrare i ragazzi e di lasciarci scuotere dalla loro umanità, ma quello di avere emozioni diverse al termine dell’incontro o dell’ora di lezione stessa, passando dalla frustrazione alla soddisfazione, dall’amarezza dell’incomunicabilità al dolce senso della riuscita.

Proprio per questo, e non per altro, tutte le nostre ricette non funzionano: esse, infatti, rimangono nel perimetro adolescenziale in cui il problema è sorto e vi rispondono dentro quella dinamica, cercando di riconciliare — o di mettere in riga — l’adolescente che abita ciascuno di noi. È chiaro che tutto questo potrebbe e dovrebbe essere spiegato in un’ottica decisamente più costruttiva, cercando di capire perché un’età così splendida — dove emerge tutta la coscienza di sé — si inceppi, ma mai come in questo frangente storico è fondamentale mettere a fuoco il problema e vederne i sintomi: i giovani non sembrano ascoltare o essere fedeli ad un determinato cammino non per un problema di “interesse” o di “mutate esigenze dei tempi”, ma per una questione più radicale che riguarda la coscienza dell’Io di ciascun ragazzo, una coscienza che non riesce a portare attenzione ad altro se non a quello che interiormente sente e rivendica. 

Di fronte a questo quadro d’insieme è utile aggiungere ancora due osservazioni: ogni adolescente, infatti, pensa sotto sotto che ogni persona che lo circonda “senta” e “interpreti” la realtà come la sente e la interpreta lui. Per questo motivo gesti che a noi appaiono insignificanti, per loro diventano epocali e significativi al di là di quello che noi stessi volevamo comunicare: il mondo, in breve tempo, può essere quindi interamente interpretato e vissuto come qualcosa che è strutturalmente “contro” il loro stesso cuore. 

Ed è per questo allora, ultima postilla, che essi tendono a radunarsi, a cercarsi e a “fare gruppo”: perché sentono terribilmente il bisogno di un luogo dove realmente ogni gesto e ogni parola abbiano un unico codice interpretativo, un unico valore simbolico, un’unica confortante o drammatica spiegazione. 

Capisco che molti possano ritenere che simili considerazioni, che tuttavia sono solo “brevi cenni su un universo”, siano più di carattere psicologico che umano, ma invito seriamente ciascuno di noi a pensare se, almeno per un istante, non abbia distintamente avvertito, nel rapporto con i più giovani, che quello che a loro davvero manca sia proprio la realtà, l’esperienza della realtà. È quello che sperimenta l’adolescente che è in noi e che, ancora oggi, cerca di evitare in vista di un mondo, affettivo o geografico, dove finalmente le cose abbiano tutto un altro gusto, tutto un altro significato. 

Questa I-generation, quindi, prima di essere processata e condannata, va anzitutto incontrata, guardata e accolta. Consapevoli che essa non vive al di là del banco o del clamoroso gesto di trasgressione che essa ci propone, ma che dimora dentro il cuore di ognuno di noi e che quindi è ben di più di “un’età di passaggio”.