A leggere per intero e senza preconcetti ideologici il ddl “Disposizioni in materia di autonomia scolastica, offerta formativa, assunzioni e formazione del personale docente, dirigenza scolastica, edilizia scolastica e semplificazione amministrativa” la cui discussione generale inizierà in Parlamento il 18 aprile, si è portati a a pensare che occorrano correzioni (sostanziali) per allinearlo davvero al modello organizzativo dell’autonomia prefigurato dalla legge Bassanini, cui esplicitamente si ispira.



Va subito detto che gli ingredienti principali ci sono tutti, ma è la loro combinazione che in certi snodi funziona poco. Meglio, ci sono qua e là granelli che se non rimossi per tempo potrebbero far incagliare il processo e far perdere l’ennesima occasione per dare autonomia alle scuole.

Detto per inciso, si assume qui che autonomia significhi responsabilità di assunzione della funzione pubblica dell’istruzione-educazione. Se l’autonomia non è finalizzata a ciò, tradisce la sua configurazione di “strumento” per raggiungere un fine. L’autonomia non è fine a se stessa, serve al raggiungimento di obiettivi di sistema. Perciò essa è responsabilità: non una generica responsabilità “diffusa” (per cui non è possibile mai individuare ciò che non funziona), bensì una responsabilità individuale.



Rispetto a tale concezione non c’è dubbio che il ddl in questione contenga elementi importanti:    programmazione dell’offerta formativa (triennale); organico funzionale alla programmazione; responsabilità in prima linea del dirigente scolastico (ds) rispetto agli obiettivi della programmazione; valutazione dei docenti.

Ci sono tuttavia anche “granelli” (e neppure troppo piccoli) che potrebbero paralizzare il percorso dell’autonomia: gli obiettivi della programmazione (art. 2, comma 3; art. 3; art. 4, comma 5) sono eccessivamente ampi e potrebbero condurre a piegare la stessa sulle esigenze dei docenti, anziché degli studenti, con la creazione di nuovo precariato funzionale ad “arricchire” l’offerta formativa (che francamente sembra già sufficientemente ricca); il ds è sostanzialmente solo a reggere il peso del processo che si individua: mancano figure professionali di peso, affianco al dirigente; la valutazione dei ds è nuovamente rinviata sine die.



Ci sono, infine, pezzi che mancano completamente, anche nel lungo elenco di deleghe di cui all’art. 21, e in primo luogo la riforma del ministero: nessun processo di autonomia vero funziona se si mantengono inalterati ruoli e funzioni dell’amministrazione centrale, come dimostra abbondantemente la recente storia italiana dei fallimenti dell’autonomia degli enti territoriali (imputata in larga misura alla mancata ridefinizione del ruolo dello Stato e soprattutto delle amministrazioni statali centrali) e come dimostrano gli studi scientifici (seri) del settore. Non ci può essere autonomia se il ministero continua ad inondare di direttive e circolari le scuole e se queste non si vedono trasferiti i “veri” poteri dell’autonomia: strumenti finanziari e di gestione del personale.

Il processo di autonomia, in sostanza, è un percorso complesso, in cui devono coesistere tanti fattori diversi affinché si ottengano i risultati sperati: organico dell’autonomia, possibilità di scelta dei docenti, imputazione di responsabilità specifiche, risorse adeguate, autovalutazione, valutazione…  

E’ però anche vero che da qualche parte occorre cominciare e non c’è dubbio che la responsabilizzazione dei ds rispetto al processo autonomistico può essere un buon punto di partenza. In questa prospettiva il dl ha un impianto chiaro, non ambiguo e, tutto sommato, condivisibile. 

Per non “annacquare” il buon punto di partenza, però, occorrono condizioni altrettanto chiare e non ambigue. 

1. In primo luogo l’azzeramento totale del precariato (mi sembra questo un buon motivo per non sparare a zero sul piano di assunzioni straordinario) e l’apposizione di ostacoli insormontabili al suo ricrearsi. Solo in questo modo si può sperare di voltare pagina ed entrare nel mondo del “dover essere” e cioè quello fatto di concorsi pubblici seri per accedere all’insegnamento e di possibilità (e non obbligo come è oggi con l’esistenza delle graduatorie) per i ds di chiamare tra gli abilitati coloro che rispondono alla programmazione dell’offerta formativa della scuola.  

2. In secondo luogo occorre distinguere le funzioni di gestione del ds da quelle di indirizzo politico nella scuola: il ds non può assumerle entrambe, rischio una deriva autoritaria e soprattutto non rispettosa dei diversi attori che compongono la comunità della scuola: i docenti, gli studenti, le famiglie, il personale amministrativo. Insomma il consiglio di istituto deve avere una configurazione più precisa di indirizzo politico di quanto non è attualmente configurato nel ddl. Se ciò non accadrà il ds che emergerà dal ddl sarà piuttosto un “superburocrate” che risponderà solo all’amministrazione scolastica e non alla comunità di riferimento della scuola. 

3. In terzo luogo occorre che a fianco del ds siano individuate figure “professionali” di sistema: una vera e propria leadership intermedia. Figure che lo stesso ds deve potersi scegliere e a cui deve potersi riconoscere una professionalità diversa da quella del ruolo unico della docenza.    

Infine un’avvertenza ai manovratori: per rendere effettiva l’autonomia occorre ridurre al minimo utile le prescrizioni dall'”alto” (le molestie burocratiche prodotte dall’immensa mole di circolari ministeriali di ogni genere e tipo) ed invece fortificare al massimo i meccanismi e le procedure di responsabilizzazione delle scuole nell’utilizzo delle risorse sia economiche che umane. (autovalutazione, valutazione, rendicontazione sociale…).

Solo così potremo sperare di veder decollare l’autonomia e con essa una effettiva responsabilità delle scuole.