PARIGI — L’intervista rilasciata al Corriere della Sera dalla ministra francese Najat Vallaud-Belkacem è un discorso di politica, coerente con quanto ha espresso il presidente della Repubblica, dopo gli attentati del gennaio scorso. Si è invocata l’unità nazionale attorno ai valori della Repubblica per lottare contro il terrorismo fondamentalista. La scuola è stata chiamata all’avamposto, in questa lotta.
Va salutato il coraggio della ministra. Nel settembre scorso si è vista catapultare, a due giorni dell’inizio dell’ anno scolastico, al ministero dell’Education Nationale. Oltre a rappresentare uno dei ministeri più difficili, non credo che Vallaud-Belkacem conoscesse molto il mondo scolastico. E’ stata portavoce del precedente governo. Continua a farlo anche in questo nuovo ruolo. Infatti in tutta l’intervista non dà nessuna spiegazione al perché siamo arrivati a una tale situazione. Quali ne sono le cause? Elenca delle soluzioni, ma quali sono i problemi?
E’ difficile entrare nel dettaglio di tutte le questioni, però, ad esempio, ogni anno 130/150mila studenti (su circa 1 milione) se ne vanno dal sistema scolastico senza diplomi o qualifiche; si può arrivare in prima media senza saper leggere; in alcune periferie “calde” delle grandi città, nelle scuole pubbliche i professori non possono trattare tutti gli argomenti, in particolare quelli relativi all’islam, al conflitto palestinese. C’è un trattamento di ineguaglianza in un sistema che fonda la sua virtù sul modello dell’uguaglianza repubblicana su tutto il territorio francese, il quale implica anche i territori nel Pacifico o in Sud America. Perché siamo arrivati a una tale situazione?
L’ottimismo della ministra è lodevole ma non vedo come la scuola, già incapace di per sé a risolvere i problemi endemici che incombono su di lei, possa farsi carico e trasmettere i cosiddetti “valori repubblicani”. Non ho capito e non capisco, poi, come si possa estrapolare tali valori e farne “una scuola”, quasi un insegnamento a parte. Questa manovra sarebbe la prova tangibile che le materie, il sapere impartito — come lo definisce la ministra — non sarebbe in grado di trasmettere un’intelligenza nell’acquisire e capire i valori repubblicani del vivere insieme. Perché scindere valori repubblicani e sapere? Da dove nasce questa scissione?
Noto, con rammarico, che nell’intervista — a parte l’invocata “libertà d’espressione” — non si fa nessun altro cenno a quali sarebbero gli altri valori che la scuola deve trasmettere. Inoltre, il presupposto implicito è che già non lo faccia.
La questione dei valori laici e repubblicani è un tema molto discusso in Francia, da vari anni. Si avverte una certa crisi, proprio in luoghi dove la “repubblica” fatica a esistere. Ma il vero problema è un altro. Vorrei fare un esempio, forse un po’ semplificativo ma chiaro.
I valori di cui parliamo sono come le conchiglie che raccogliamo sulla spiaggia d’estate. Le troviamo attraenti e le prendiamo per ricordo, nonostante siano dei gusci vuoti. Non ci passa per la mente che, in principio, queste conchiglie contenevano al loro interno degli organismi viventi attaccati a una roccia o fondale che le rendevano vive. Ora, invece, si sono staccate e quindi sono morte. Rimane la conchiglia ma non c’è più vita; sono “belle” ma vuote.
Si può fare un parallelo con i “valori laico-repubblicani”, perché non si sa più di cosa si parla dato che non sono più attaccati se non a un discorso. Difatti, neanche la ministra ne può parlare. Salvo “la libertà d’espressione”, modello Charlie. Qui, però, si pone un altro problema. Nei mesi scorsi si è cercato di trovare una definizione che esprimesse che cos’è la libertà di esprimersi. L’idea soggiacente era di rendere “universale” la libertà anarcoide di Charlie, come valore repubblicano. Da qui sono sorte le resistenze e i boicottaggi in certe scuole. Nessuno, però, ha potuto immaginare che la libertà non nasce da una definizione o da un concetto filosofico illuminista, bensì da un’esperienza. Invece di spiegare ai ragazzi che cos’è la libertà, perché non li si aiuta a riflettere quando la sperimentano?
Questo progetto ha delle conseguenze molto drammatiche nella società e soprattutto nella scuola. Se, infatti, la grande maggioranza della popolazione musulmana ha rifiutato l’idea di libertà alla Charlie, oltretutto politicamente è una strategia suicida poiché quella frangia di mussulmani “moderati” non potranno aderire a un tale modello di libertà.
Nella mia scuola ho visto, all’inizio con piacere, i ragazzi ritrovare il desiderio di “giudicare” quanto era accaduto nella forma di un giornalino. Ma dopo quattro numeri è risultato una catastrofe, perché è emerso in modo chiaro che la loro libertà d’espressione è un’accozzaglia di tutto quello che non va nella società e già si legge altrove. La loro idea, non essendo educata, si traduceva per forza in un esser contro tutto quello che non pensano loro. Ho chiesto a uno di loro: “ma la libertà non può essere costruire qualcosa insieme?”. Nessuna risposta. Mi sono accorto che non potevano rispondermi perché non potevano, forse, nemmeno capire la mia domanda.
Questo silenzio è inquietante sia nei giovani che negli adulti che vivono a scuola. Nell’intervista di NVB, infatti, coloro che già sono presenti a scuola sono totalmente screditati. Occorrono i “formatori” — gli esperti — per saper parlare ai ragazzi. Per impedirgli “di andare a cercare su un sito che cosa bisogna pensare”. Come non bastasse, abbiamo anche i “riservisti” ossia “cittadini di riserva…. ognuno con un’esperienza da raccontare in classe” per “diffondere nelle scuole i valori della Repubblica”. Penso che questi volontari siano delle brave persone e quindi degne di rispetto. Tuttavia, chi stabilisce che l'”esperienza” che raccontano ha un qualche interesse? Chi decide che siano capaci di comunicare l’esperienza che hanno vissuto, a dei giovani?
Siamo nel surrealismo oppure in un dilettantismo inquietante.
Aggrapparsi ai “vecchi Lumi” rispolverati non potrà mascherare il vuoto in mezzo al quale molti insegnanti ed educatori, invece, credono e si battono perché la scuola abbia una vera missione. Il dramma è proprio questo: “la scuola è diventata fonte di tutte le speranze… e allo stesso tempo la spia di tutto quello che non va”, dice la ministra. Invece è vero proprio il contrario. Più nessuno spera nella scuola o s’attende che possa essere questo luogo. Come diceva Péguy: “quando una società non sa più insegnare, è perché ha vergogna, paura d’insegnare a se stessa… una società che non insegna più è una società che non si ama; e questa è precisamente la situazione della società moderna”.