Erano anni che i sindacati della scuola non scendevano uniti in piazza contro qualcuno. Il 30 ottobre del 2008 lo fecero contro Gelmini-Berlusconi. Oggi contro Giannini-Renzi. Alla base dello sciopero del 5 maggio prossimo stanno questioni di contenuto e questioni di procedure legislative. Partendo da queste ultime, il governo ha fatto il pendolo tra decretazione d’urgenza e legiferazione ordinaria via disegno di legge. Nel quale ha concentrato questioni urgenti, quale l’assunzione di 100mila precari a partire da settembre, e una delega di più lungo periodo, riguardante tutti i principali temi di riforma. L’illusione era di arrivare ad approvare il ddl entro aprile-maggio. Ma ai fini dell’assunzione dei 100mila, questi tempi sono ormai troppo ristretti. Così che si torna all’ipotesi originaria: un decreto di assunzione subito, il resto su tempi lunghi. 



Queste oscillazioni hanno generato incertezze e fornito benzina all’opposizione politica e culturale di parte sindacale all’impianto del ddl La Buona Scuola. Così si è formata a poco a poco una vasta coalizione di sigle sindacali e associative, compresa l’Unione degli studenti, che contesta alla radice la consegna della scuola pubblica ai privati — dove “pubblica” significa più ristrettamente “statale” —, l’istituzione di un potere autoritario dei dirigenti scolastici, l’incapacità della scuola di azzerare le diseguaglianze sociali. 



L’appoggio che la Camusso ha dato all’intera operazione fornisce una prova ulteriore circa la natura politica dello sciopero. “Politica” vuol dire che il bersaglio è il governo Renzi in quanto tale, non il ministro Giannini. Questo almeno nelle intenzioni della Cgil e della sua articolazione nella scuola: la Federazione dei lavoratori della conoscenza. La Cisl ha assunto posizioni più tradizionalmente sindacalistiche. Chiede l’assunzione dei precari a settembre, come del resto promesso da Renzi. Benché sotto traccia, stanno confluendo nella giornata di sciopero anche pulsioni anti-Invalsi, visto che martedì 5 maggio è anche la data per la prova preliminare di lettura (II primaria) e di italiano (II e V primaria). 



La piattaforma sindacale è malinconicamente mossa da un’eterna coazione a ripetere. Nessuna riflessione sul curriculum, alla cui dilatazione il sindacato resta interessato, perché porta cattedre-posti di lavoro, anche se ingolfa ancora di più le giovani menti degli alunni, inducendole in tentazioni di fuga. Quanto alla governance, l’autonomia è invocata, ma nella sua versione autogestionaria e assemblearista, dove il comando risiede nel collegio dei docenti. E’ il vecchio modello parlamentare dei decreti delegati del 1973/74, nel quale ogni domanda è rappresentata e ogni risposta-decisione rinviata alle calende greche. In questo modello la scuola risponde a se stessa, non ai ragazzi, non alle famiglie. Pertanto, l’idea di caricare i dirigenti di responsabilità decisionali è considerata semplicemente autoritaria ed eversiva. 

E’, d’altronde, lo stesso schema culturale che ispira la critica alle riforme elettorali e istituzionali: no ad un uomo solo al comando. In questo i sindacati partecipano della cultura politica diffusa del Paese, per la quale la democrazia consiste nel rappresentare, non nello scegliere, non nel decidere, non nell’assumersi il rischio della responsabilità, non nel pagarne i prezzi. 

Quanto all’imputazione alla scuola pubblica di non essere in grado di abolire le diseguaglianze, ma di confermarle, il rimprovero è centrato. Ma non c’è neppure un abbozzo di tentativo di comprensione delle cause, che vengono cercate, come le chiavi dall’ubriaco, soltanto sotto il lampione. Un approccio più intelligente permetterebbe di scoprire che le cause stanno nell’egualitarismo burocratico con cui ogni ragazzo viene accolto nella scuola, sotto il quale si occultano le diseguaglianze reali all’ingresso. Solo un approccio pedagogico e didattico personalizzato, solo una comunità professionale educante, solo la flessibilità nel percorrere il curriculum, solo la rottura del taylorismo proto-industriale potrebbero permettere di trattare ciascuno come una persona e non come il cittadino medio che non si dà in natura. Sì, la scuola deve essere “di tutti”. Ma per esserlo, deve essere “di ciascuno”. Parola del citatissimo don Milani. Difendere la scuola statale così com’è e rimproverarle di essere disegualitaria è un’evidente doppiezza. 

Quanto al ricorrente pericolo della privatizzazione della scuola statale, non se ne vede traccia. Ma qui cozziamo contro il rifiuto ottuso di prendere atto del nuovo Titolo V della Costituzione, per il quale lo Stato non coincide con la Repubblica, ne è solo una parte,  e pertanto “pubblico” è concetto più largo e più profondo di “statale”. E contro la legge n. 62 del 2000, che riconosce il carattere pubblico alle scuole private, che rispettino determinati parametri. E’ “aziendalismo” organizzare le risorse umane e finanziarie di una scuola secondo criteri di efficienza e di efficacia e valutare gli esiti? L’azienda ha quale intransigente “giudice a Berlino” il mercato dei consumatori; la scuola ha o dovrebbe avere un severo sistema statale di valutazione esterna. Che però viene respinta. 

In nessun Paese al mondo il sindacato pretende di cogestire l’istituzione scolastica. Si pone quale difensore degli interessi della forza-lavoro. E poiché gli interessi dei lavoratori non necessariamente coincidono con quelli dei ragazzi, delle famiglie, del Paese, tocca ai governi comporre i conflitti tra interessi tutti legittimi, in nome di un Bene comune. In Italia, invece, il sindacato è fermamente ancorato alla cultura prevalente della prima repubblica: difendere, legittimamente, interessi di parte, ma pretendere di farne l’asse culturale-politico-organizzativo dell’istituzione scolastica. Il che è tipico di ogni corporazione del Paese: elevare il proprio interesse a interesse-bene comune del Paese. 

Di qui la natura impropriamente politica dello sciopero. Non è compito dei sindacati definire cosa deve essere l’istituzione scolastica né, tampoco, governarla. Devono solo fare il proprio mestiere: difendere gli interessi dei loro tesserati.