Il potenziamento delle competenze degli alunni nella musica e nell’arte rientra tra gli obiettivi della Buona Scuola dell’attuale governo, così come rientrava tra le strategie di governi precedenti. Ricordiamo che il decreto-legge Carrozza del 2013, n.104, prevedeva “la realizzazione di progetti didattici nei musei, nei siti di interesse archeologico, storico e culturale o nelle istituzioni culturali e scienti?che”. Su questi temi la grancassa degli uffici stampa ministeriali è al lavoro. È di circa un anno fa l’impegno di Miur e Mibac (ministero Beni artistici e culturali) a resuscitare l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole, penalizzato dalla riforma Gelmini. Si è recentemente avuta notizia di un decreto interministeriale, facente capo ai medesimi dicasteri, che stanzierebbe (non è ancora chiaro l’iter) tre milioni di euro per attuare, in ritardo, proprio quanto previsto dal decreto Carrozza, e cioè l’organizzazione, tra scuole e musei, di una didattica interattiva finalizzata ad appassionare i ragazzi all’arte e ai luoghi della sua conservazione. 



Si aggiungeranno dunque ore e indirizzi là dove la materia è stata tagliuzzata, oppure si incrementerà la didattica museale? La seconda strada non sarebbe da scartare, ad alcune condizioni. La didattica museale ha in Italia un storia relativamente lunga e gloriosa risalente al secondo dopoguerra, quando i musei italiani si aprirono al pubblico, quelli almeno che scamparono ai bombardamenti alleati. Il passaggio del fronte, infatti, inflisse all’arte del nostro paese un trattamento brutale. Si parla di oltre cinquanta luoghi artistici e religiosi danneggiati, dall’Abbazia di Montecassino alla Chiesa degli Eremitani a Padova, al Museo archeologico di Napoli, all’area archeologica di Pompei e, come si può immaginare, di innumerevoli beni trafugati e scomparsi. Ad ogni modo, passata la tempesta, nacque l’idea di avvicinare i tesori museali al grande pubblico e soprattutto a quello delle scuole. 



Si sviluppò poco alla volta l’idea del museo come “esperienza sociale”: è questo il titolo di un importante convegno che si tenne a Roma nel 1971, in occasione del quale si teorizzò il museo come funzione di una società in costruzione e spazio da vivere emotivamente, in modo da offrirlo alle scuole come “laboratorio” aperto ad ogni indirizzo di ricerca. La didattica museale nasceva come occasione di attivazione di interessi da parte di alunni e docenti, normalmente passivi di fronte all’opera artistica. In questa azione di “democratizzazione” del museo la scuola era in qualche modo l’interlocutore privilegiato, come appunto dimostrano i tanti percorsi didattici che in quasi tutti i musei italiani intendono avviare i giovani visitatori alla “fruizione” dell’opera artistica o naturalistica (dipende appunto dai musei). Oggi tutti i musei o poli museali hanno percorsi didattici o sezioni didattiche generalmente frequentate soprattutto da alunni della fascia primaria e secondaria di primo grado. Nel sito del Museo egizio di Torino, ristrutturato di recente, si legge che “tutte le attività sono svolte da egittologi con pluriennale esperienza nel campo della didattica museale” e che inoltre i servizi museali “offrono la possibilità alle scuole di svolgere lezioni tematiche direttamente presso l’istituto scolastico interessato”.



Detto che questo passaggio verso una maggiore praticabilità dell’opera d’arte, cioè la lezione di Walter Benjamin sulla sua riproducibilità nelle mille forme dello schizzo, fotografia, video, tipiche della nostra epoca, è perfettamente riuscita, almeno nella concezione della didattica museale nostrana (e non solo nostrana), c’è però da osservare che rispetto alle esigenze degli alunni e delle opere stesse che sono da ammirare nei musei si richiede oggi un passo ulteriore. 

L’osservazione si impone rispetto alla distruzione dell’opera d’arte nell’epoca della sua “non riproducibilità” nei paesi occupati dallo stato islamico. Le statue del museo di Mosul, i resti della città di Ninive, le rovine di Hatra e tutto il resto che viene picconato dai jihadisti dimostra che l’opera d’arte ha un valore intrinseco che non deriva né dalla sua funzionalità, né dalla sua riproducibilità. Nemmeno dalla sua eccezionalità. Deriva dalla sostanziale carica umana di cui sono dotate. L’opera in se stessa richiama l’umanità dalla quale nasce ed è espressione di una memoria che richiede la partecipazione di chi la osserva. Da questa tensione, che trascende il puro livello dell’analisi, intendono distogliere, per sempre, i nuovi distruttori. Il dramma dei patrimoni culturali annientati dall’Isis rimbalza nella nostra attualità. 

Che fare dunque dei “nostri” ancora ricchi e ridondanti percorsi museali da attraversare con i nostri alunni spesso così distratti? Occasioni di apprendimento: ecco quello che forse manca, nonostante le pregevoli innovazioni logistiche e tecnologiche di cui è in molti casi arricchita la proposta museale per le scuole. C’è sempre bisogno di qualcuno, l’insegnante ricco in umanità, che introduca gli alunni ad una comprensione dell’opera tramite un lavoro di riflessione sulla propria esistenza da parte di chi guarda e di ampliamento degli orizzonti della ragione. Le categorie del tempo e dello spazio non bastano; occorre la profondità. Si tratta in ogni caso di testimonianze legate da un filo rosso, tutto da scoprire nella libertà interpretativa che deve fare riferimento alle nostre più profonde esigenze di vero e di bello. Anche un percorso nel più piccolo luogo artistico della nostra terra, non ancora martoriata, può condurci allora a casa più ricchi e maturi. Perché abbiamo fatto un incontro con chi, nelle forme più varie, ha voluto parlare a noi oggi.