Una volta si diceva che per ogni scuola che apre un carcere chiude; ciò per evocare una grande verità: il futuro di un popolo è garantito dall’avere una buona scuola e un sistema formativo efficace. Alla luce dell’esperienza che ora narriamo, si potrebbe modificare quell’antico adagio dicendo: affinché un carcere chiuda o quanto meno vi siano meno detenuti in un paese, sarebbe sufficiente, più che aprire nuove scuole, che in quelle già esistenti lo studio si trasformasse in  un’esperienza significativa, capace di incidere nel ragazzo, di farlo crescere umanamente, di fargli metter su giudizio.



Sono amabili ingenuità? La notizia che lunedì 23 marzo scorso un gruppo di studenti — per lo più maggiorenni — di una scuola superiore (Istituto De Nicola di Sesto San Giovanni, Milano) abbia fatto visita ai detenuti del carcere di Bollate non avrebbe in sé nulla di speciale: sono tanti i politici o i giornalisti che visitano gli istituti di pena, anche gli studenti — con i dovuti permessi e nel rispetto dei protocolli — possono entrare in un carcere e constatare le condizioni in cui in Italia si espia la pena. Invece la notizia è di quelle vere, che ci parlano cioè di un cambiamento e di una novità. 



Prima di tutto quella visita non è stata effettuata a beneficio di semplici detenuti ma di detenuti-studenti, che nel carcere di Bollate si stanno diplomando in ragioneria, ed infatti, “dentro”, vi è la sezione staccata dell’Istituto Primo Levi. E poi la notizia è che gli studenti di Sesto non si sono limitati alla classica visita di cortesia: dopo adeguata preparazione, hanno allestito uno spettacolo teatrale dove i ruoli sono state distribuiti in parti uguali tra gli studenti liberi e gli studenti detenuti. Quindi, con le prove e l’allestimento, è avvenuto un incontro, una conoscenza reciproca,  un’esperienza che continuerà. Ed è già qui il famoso reinserimento. Che stupore constatare che in fondo persone che hanno rubato, spacciato o che hanno commesso altri reati sono persone come noi! Che immediatezza di sguardo nei detenuti, che notano subito se li giudichi o li guardi per quello che sono o per quello che hanno fatto. 



L’iniziativa ha preso spunto dalla recente (6 marzo) Giornata europea dei Giusti. Come si sa i Giusti sono tutti coloro che di qualsivoglia nazionalità, purché non ebrea, hanno salvato — mettendo a repentaglio la propria vita — quella di donne, uomini e bambini ebrei durante la Shoah. E’ la Knesset di Israele a deliberare, dopo approfondite indagini, se uno è stato un giusto o meno ed ad aver diritto, nello Yad Vashem, la Foresta dei Giusti di Gerusalemme, ad un albero in suo ricordo. Il messaggio è stato quello di far capire a tutti che, anche in un carcere, come nella scuola pubblica, si può e si deve avere il coraggio dei Giusti. E non è scontato che si debba esser giusti in un carcere: non basta scontar la pena, bisogna espiare “bene” il male fatto, ovvero cambiare. 

Si dice che il carcere — date le recidive — non renda migliori: questo esperimento però sembra portare in una direzione diversa. Non è scontato nemmeno che a scuola ci si debba comportare da giusti: non basta frequentare, occorre imparare, giorno dopo giorno, con la costanza e la relazione virtuosa e lo studio, il senso di responsabilità. 

Gli attori-studenti hanno messo in scena un testo scritto dal grande Eugène Jonesco sulla base di un fatto storico realmente accaduto nel lager di Auschwitz: la storia di Massimiliano Kolbe, frate polacco morto nell’agosto del ’41 dopo aver offerto la propria vita in cambio di quella di un deportato. L’iniziativa è stata possibile grazie a due associazioni di volontariato, “Croce padre Kolbe” e “Incontro e Presenza”, benemerite perché sono accreditate presso il ministero di Grazia e Giustizia per il reinserimento dei detenuti a fine pena. Merito dell’iniziativa in parte va a Gariwo, gruppo di persone attente alla memoria del Bene nella storia e che hanno promosso il fenomeno storico dei Giusti in Italia e in Europa. E tuttavia la scintilla che ha permesso tutto è l’unità didattica sull’Illuminismo: tutto è partito dallo studio del grande Cesare Beccaria e dal suo Dei delitti e delle pene. 

E così, dai banchi di scuola, si è potuta agganciare la realtà umana del carcere. Come attraversare la contraddizione e la complessità di un contesto educativo problematico come quello della scuola? Con una proposta, rendendo bello l’apprendimento e l’insegnamento, tutti presenti e pazienti come all’appello della prima ora in classe, senza cedere al lamento, al j’accuse, insomma senza dover aspettare sempre tutto dall’alto. E’ l’esperienza di una positività in atto che consente di non demordere e non fluttuare nell’azione educativa, tenendo fisso lo sguardo sulla proposta e l’eventuale corrispondenza negli studenti che  si muovono e seguono, in una parola si responsabilizzano. Occorre coinvolgere gli studenti in un percorso che va dalla relazione personale  alla messa in atto di momenti espressivi: da una mostra a un’uscita didattica, a un diverso viaggio di istruzione, a un teatro in cui al centro sia la didattica e l’apprendimento quotidiano, in un gioco paziente, nel tempo, correggendo le strategie se è il caso, comunque puntando sulla positività di una proposta che richiede la libertà dei ragazzi.  

E’ recente un articolo sul Corriere di Pierluigi Battista che lamenta la “messinscena” del rogo di libri sui gay da parte dei giovani di Forza Nuova. Con tutta la stima per l’editorialista del Corriere, che paventava un improbabile ritorno del nazismo (non ci sono più le stesse condizioni storiche), come non capire che il dramma è nelle scuole e nelle agenzie educative, che non intercettano la voragine — oramai — del bisogno di modelli, di incontri, di proposte? 

In un dibattito pubblico perfino don Gino Rigoldi, che di emarginazione se ne intende, ebbe a dire: “siete voi a scuola che potete offrire l’effettiva possibilità che i giovani si educhino e crescano responsabili, perché quando vengono da noi (al Beccaria) i guai son già stati fatti!“. 

Nel corso dei primi tre mesi del 2015 si sono tolti la vita, all’interno delle carceri italiane, già dieci detenuti su un totale di 21 decessi (rivista Ristretti orizzonti)Non è solo questione di condizioni disumane in cui l’unica liberazione sembra essere la morte, ma — come per i giovani o gli studenti delle nostre scuole — si tratta di guardare bene la persona di oggi, la sua paura di esistere, la fragilità del vivere, l’inconsistenza di se stessi, l’orrore dell’inadeguatezza di sé, una solitudine incolmabile e incancellabile. Se gli insegnanti non intercettano la “realtà”, se la loro  preoccupazione non passa da una posizione intellettualisticamente critica alla passione per ciò che caratterizza l’uomo oggi la loro sarà azione vana.