L’iter del disegno di legge sulla riforma dell’istruzione che approda in Aula manifesta preoccupanti segni di incertezza proprio nei passaggi di maggior rilievo innovativo, come quello della governance della scuola.

L’autonomia scolastica continua a non riuscire ad emergere, stretta tra un’idea di comunità educativa priva di un’organizzazione orizzontale ed una pressante gestione dirigista ministeriale.



Questa contraddizione non viene certo eliminata dal ddl del Governo Renzi, che ha tentato di rafforzare la figura del dirigente scolastico, sebbene con un approccio burocratico, salvo poi gettare subito la spugna di fronte alle prime proteste per tornare alla realtà preesistente.

Contrariamente a quanto prevedeva il comma 1 dell’art. 2 del ddl, affidare la redazione del piano di offerta formativa al collegio dei docenti, con approvazione da parte del consiglio di istituto, è un’occasione mancata per introdurre un nuovo modello di governance della scuola statale che possa superare gli evidenti limiti di una gestione basata sul formalismo e sul controllo delle procedure piuttosto che sui risultati. Sembra quindi sfumare una preziosa occasione per la realtà scolastica italiana di dotarsi di un modello organizzativo di tipo manageriale fortemente innovativo, sull’esempio di molte altre realtà europee.



Non si è avuto il coraggio di ripensare la governance della scuola, in modo che sia pronta a raccogliere le sfide che provengono dai contesti economici, produttivi e culturali dei territori, così fortemente mutati negli ultimi anni.

Il Governo e la sua maggioranza non hanno fatto questo salto di qualità, perché non riconoscono il valore della cultura della sussidiarietà, necessario per concepire una scuola davvero autonoma, radicata sul territorio, capace di avere una propria identità e di proporre un proprio progetto formativo.

Un modello che voglia realizzare autonomia concreta, e non solo sulla carta, deve essere rappresentato certamente da principi quali la responsabilizzazione professionale dei dirigenti e dei docenti e deve definire nuovi ruoli cui correlare le relative responsabilità, ma anche prevedere l’autonomia statutaria delle istituzioni scolastiche (come negli enti locali, tanto cari a Renzi) e l’apertura al territorio negli organismi di governance. In questo quadro, anche la rivisitazione degli organi collegiali intesi come organi di coordinamento e di governo diventa quanto mai urgente per una maggiore efficienza gestionale. Ma anche questo obiettivo è stato stralciato dal testo del ddl, diventando quindi opzionale rispetto al progetto di riforma, che mantiene la governance partecipativa degli anni 70.



Così pure è estremamente preoccupante che la dimensione del riconoscimento economico correlato alla valutazione dei docenti sia stata abbandonata, con il mantenimento pieno degli scatti di anzianità e l’aumento della spesa pubblica per individuare qualche risorsa aggiuntiva da destinare al merito. Siamo ancora lontani da un rilancio della professionalità docente. Nel ddl non vi è infatti traccia della proposta che avevamo portato nel dibattito politico e istituzionale circa una concreta prospettiva di sviluppo di carriera da realizzarsi attraverso l’individuazione di tre figure docenti: ordinario, esperto e senior, con un chiaro riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata.

Rispetto al ruolo del dirigente scolastico, per ridurre i suoi poteri discrezionali sarebbe stato sufficiente un trasparente sistema di controllo del suo operato e la già prevista valutazione delle sue performance. Invece, non è funzionale alla prevenzione di situazioni di abuso di potere ricorrere a immobilismi preventivi di limitazione di importanti ambiti di intervento del dirigente o affiancargli dei docenti con logiche di cogestione assembleari.

La necessità di procedere con un approccio più sussidiario e meno dirigista dovrebbe informare maggiormente anche la scelta dei docenti dagli albi territoriali. Si tratta senza dubbio di una novità di rilievo, purché non sia gestita con la vecchia logica concorsuale dall’approccio meramente formalista. In questo senso, apprezziamo la modifica, intervenuta nel passaggio in Commissione cultura che prevede il ricorso alle reti di scuole per la chiamata diretta dei docenti. Assieme al Coordinamento delle Regioni, Regione Lombardia ha fortemente richiesto questa modifica perché solo le reti di scuole consentono di aumentare la capacità delle istituzioni, di creare sinergie tra di loro e di essere maggiormente efficaci ed efficienti nel raccordo territoriale e nell’offerta progettuale, soprattutto relativamente alla redazione del piano dell’offerta formativa (Pof) e alla gestione del personale.

Il Pof, infatti, non riguarda solo gli insegnamenti stabiliti dai curricola nazionali, ma anche e soprattutto il potenziamento dell’offerta formativa e delle attività progettuali, quali ad esempio l’interazione con le famiglie ed il territorio, il raccordo con le imprese ed il mondo del lavoro, l’apertura pomeridiana delle scuole, il contrasto della dispersione scolastica, l’inclusione degli studenti stranieri e molti altri aspetti legati ai piani formativi.

Pur denunciando l’assenza di un qualsiasi riferimento ai percorsi di istruzione e formazione regionali con cui si assolve l’obbligo di istruzione e il diritto-dovere, una novità del ddl che invece è condivisibile ed in linea con la legge 53/2003 (riforma Moratti) e con il modello lombardo dell’istruzione e formazione professionale, è l’irrinunciabile necessità di realizzare in concreto il sistema duale, avvicinando le scuole e le imprese, anche prevedendo una generalizzazione dell’alternanza scuola-lavoro e favorendo l’attivazione dell’apprendistato per l’acquisizione di un titolo di studio.

E’ necessario anticipare l’incontro delle nuove generazioni con l’esperienza creativa e formativa del lavoro: per troppo tempo la scuola ha teso a sterilizzare l’incontro vivo con le dinamiche del lavoro e delle reti sociali e culturali che lo rendono possibile. Un altro dato che rende conto dell’urgenza con la quale occorre procedere per l’attuazione del sistema duale, riguarda il tasso di disoccupazione giovanile. La disoccupazione, soprattutto tra i più giovani, continua a crescere anche a causa del disallineamento tra le competenze fornite dal sistema di istruzione e formazione e le competenze tecnico professionali ma anche trasversali che oggi sono richieste per promuovere il rilancio dell’impresa e del lavoro in una società altamente complessa.

In questo quadro, una forte alleanza sistemica tra scuola e mondo del lavoro, tra istruzione e formazione professionale, tra cultura generale e competenze specialistiche costituisce condizione imprescindibile per costruire una cultura della formazione e del lavoro.

In Regione Lombardia, dove già è consolidato un sistema di istruzione e formazione professionale, si sta procedendo lungo la direttrice di una valorizzazione dell’intero sistema costituito da reti orizzontali tra scuole e imprese, attraverso il rafforzamento dell’apprendistato, lo sviluppo di una filiera di formazione professionalizzante fino al livello terziario, il rafforzamento del ruolo delle istituzioni scolastiche, formative ed universitarie nella transizione al lavoro dei propri studenti.

Si tratta di una policy strategica per rilanciare l’occupazione giovanile, offrendo l’integrazione tra sapere teorico e sapere pratico, studio e lavoro, riflessione ed azione, che rappresenta la maggiore sfida per un vero ammodernamento del sistema di istruzione e formazione.

Per tutte queste ragioni, si può ben dire che il modello lombardo di istruzione, formazione e lavoro risulti molto più avanzato di quanto si stia tentando di realizzare con le riforme del Jobs Act e con La Buona Scuola e sia paragonabile ai migliori sistemi di istruzione e formazione europei, anche sotto il profilo della salvaguardia e promozione del pluralismo educativo. Peccato non averlo copiato interamente.