Un docente dell’Istituto scolastico “Don Gnocchi” di Carate Brianza (Monza) ha modo di ascoltare sulla BBC la testimonianza di padre Douglas Al-Bazi, sacerdote e rettore scolastico a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Nel frattempo il giornalista Luca Fiore aveva intervistato padre Douglas per l’ultimo numero di “Tracce”. Di qui nasce l’idea di contattare il sacerdote e di invitarlo a scuola per rispondere alle domande degli studenti e raccontare la propria storia. Ieri gli studenti hanno incontrato padre Douglas (video).
Nella sua parrocchia, a mezz’ora di auto dalle postazioni dell’Isis, si sono rifugiati centinaia di cristiani sfollati dai territori occupati dai terroristi. La sua scuola è frequentata da oltre 400 studenti provenienti da Iraq, Siria e Giordania. Di seguito, gli appunti della sua testimonianza, non rivisti dall’autore.
Io non “rappresento” il mio popolo: io “sono” il mio popolo, parlo come parte di esso, quindi non guardate a me come un eroe. Sono semplicemente un iracheno cristiano fiero di esserlo, che ama il suo paese.
L’Iraq ha seimila anni di civiltà, ma oggi non abbiamo cultura. Alcuni parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù. Nell’ultimo secolo, il mio popolo è stato attaccato otto volte, e quattro volte spinto a migrare (due all’interno dell’Iraq, due all’estero). Prima del 2003, molte persone pensavano che l’epoca di Saddam fosse un’epoca d’oro, ma in realtà durante quel periodo vi fu una guerra civile; se nasceva un bambino era proibito dargli un nome cristiano, erano consentiti solo nomi arabi e musulmani; nello spazio dedicato alla professione di fede sui documenti ufficiali si poteva indicare solo “musulmano” o “non musulmano”, senza ulteriori specifiche. Tuttavia, si viveva insieme in pace. In Iraq ci sono molte religioni, musulmani (sunniti e no), cristiani (cattolici e no) e altri (yazidi, ma non solo), ma c’è anche molta violenza. Attenzione: il problema del mio paese non è il petrolio, che comunque è meno abbondante del sangue dei martiri. Il primo problema è piuttosto il conflitto interno all’islam, fra sciiti e sunniti. La seconda ragione della violenza riguarda lo scontro per acquisire il diritto a occupare la terra. Solo al terzo posto si pone il problema del petrolio, così abbondante da essere meno costoso dell’acqua.
Perché i cristiani sono attaccati in Iraq? Perché si tratta dell’ultimo gruppo educato in quel territorio. L’ultimo gruppo capace di distinguere tra il bene e il male. L’ultimo gruppo in grado di dire al governo: “Stai sbagliando”. L’ultimo gruppo che è in sé stesso una finestra sul mondo, in grado di far entrare il mondo in Iraq. Per questa ragione hanno attaccato gli ebrei, cinquant’anni fa; ora è il turno dei cristiani.
Nel 2005 è cominciata la prima guerra civile tra sciiti e sunniti. Quando questo accadde, noi cristiani ci siamo trovati nel mezzo, così come eravamo nel mezzo dello scontro tra curdi e governo centrale. Nel 2006 Benedetto XVI svolse il suo discorso a Ratisbona, cui i musulmani reagirono: fummo noi a farne le spese. Il giorno dopo quel discorso ho trovato davanti alla mia chiesa di Baghdad un pacco di plastica; insieme a un ragazzo mi accostai a non più di sette metri di distanza e mi ritrovai sbalzato di trenta metri indietro per l’esplosione della bomba. Sembrava un action movie: ciascuno chiedeva urlando all’altro se stava bene, ma non potevamo ascoltarci, avevamo perso l’udito in quel momento. Sono stato poi colpito da un colpo di Kalashnikov alla gamba: quando me ne resi conto pensai che il soldato non era stato bravo, dato che mi aveva mancato.
In seguito sono stato rapito per nove giorni, che non dimenticherò mai. Ve lo racconto perché la mia storia è la storia del mio popolo. Era un giorno normale, dopo la Messa ero andato a trovare dei miei amici; hanno bloccato l’autostrada davanti alla mia macchina, mi hanno fatto uscire dall’auto e mi hanno messo nel bagagliaio di un’altra automobile con la quale mi han portato non so dove. Appena arrivato mi hanno bendato, avvertendomi che se mi fossi tolto la benda mi avrebbero ucciso. Il primo giorno mi hanno rotto il naso, poi mi han lasciato per quattro giorni senza acqua. Per questa ragione ancora oggi non vado mai a letto senza dell’acqua accanto; tutte le notti mi sveglio spesso, tocco la bottiglia e mi rassicuro. Ci fu una trattativa con un amico sacerdote per il riscatto: dovevamo parlare in arabo e tutto veniva registrato, ma quando io gli dissi in aramaico “eiela“, che significa “è finita”, “non c’è ritorno”, il prete si fece passare i terroristi e disse loro, prima di riattaccare: “Padre Douglas sarà per noi un altro martire”. Mi portarono in una stanza orrenda, mi incatenarono e mi costrinsero ad ascoltare notte e giorno la predicazione del Corano ad alto volume, per dimostrare ai loro vicini che erano religiosi. Cominciarono la tortura rompendomi un dente col martello; la bocca si riempì di sangue, ma mi invitarono a non preoccuparmi di questo: “La notte è lunga e tu hai tanti denti”. Poi mi ruppero un disco della colonna vertebrale. Non posso non pensare a queste cose, ogni volta che prendo in mano un martello. Ma il peggio è quando adoperarono parolacce e insulti nei confronti della mia gente e io non potevo rispondere per un semplice motivo: perché non sono come loro.
Mi considero fortunato ad aver la possibilità di raccontare la mia storia, ma non perché sono un eroe. Ho cominciato a raccontare questa storia perché il mio popolo sta morendo, ma non per la mancanza di cibo: quel che mi spaventa è che la stessa storia è stata raccontata già da diverse generazioni. Il mio bisnonno fuggì dall’Armenia durante il genocidio operato dai turchi; mio nonno fuggì a Mosul; mio padre fuggì a Baghdad; io da Baghdad sono risalito a Erbil.
La mia gente è divisa in due gruppi: c’è chi attende il futuro e chi ne ha paura, non vorrebbe che il futuro arrivi mai, perché quando arriva il futuro si è costretti a decidere se andare via o andare avanti, continuare. La mia chiesa è al centro di un “campo” che io mi rifiuto di chiamare così perché non è un luogo di rifugiati, ma di parenti e amici. In un giorno solo sono arrivati 35mila rifugiati; nel giardino davanti alla mia chiesa sono accampate 564 persone, di cui cinque bambini nati lì, fra tende e roulotte. Gli adolescenti pregano Dio di non tornare nelle loro case, perché non vogliono ritrovare lo stesso stile di vita imposto dai terroristi che ha reso loro impossibile la vita. Perciò da noi per lo più non c’è speranza nel futuro. La gente può sopravvivere nel dolore, ma non senza speranza.
Perché siamo ancora lì? Perché io sono ancora lì? Cosa mi fa rimanere lì? La casa è la casa, la patria è la patria: io non sono un eroe, sono semplicemente un uomo innamorato del suo Paese. Dopo le torture subite, amo la vita ancora di più e sono ancora più insofferente della violenza. La mia gente in un giorno solo ha perso tutto: potete immaginarvi questo, di abbandonare la vostra casa con solo i vostri vestiti indosso, e di rimanere con quei vestiti per due mesi, per ritrovarsi a vivere in un giardino senza bagno e doccia a quarantacinque gradi? Le ragazze in particolare mi invitano a guardare i loro capelli. Un giorno una donna incinta mi ha chiesto se era possibile partorire in una tenda. Eppure le pancione aumentano di giorno in giorno, e il quarto bambino nato lì è stato chiamato Douglas in mio onore, povero bimbo. Ci hanno rubato tutto, ma non la gioia! Nessuno di noi è arrabbiato con Dio o si lamenta con Dio. Pensate a quante cose noi lamentiamo: c’è qualcosa di cui vi lamentate? Ebbene, a noi quella ragione di lamento non manca di certo.
Comunque, io sono sorpreso di come la mia gente stia vivendo oggi. Siamo cristiani non solo per i tempi buoni, ma anche per questi. I miei rapitori, durante il sequestro, mi han chiesto cosa avrei detto loro se mi avessero rapito di nuovo. Ho risposto: “Berremo un tè e ricorderemo questi giorni, perché in questi giorni io sono stato il vostro padre spirituale”. Infatti, in quei giorni uno di loro mi chiedeva come fare con sua moglie, e io incatenato e bendato gli suggerivo di non abbandonarla e di mostrarle che le voleva bene. Questo non impediva a lui e agli altri di insultarmi, durante la notte, in quanto “infedele”.
Come si fa a sopravvivere? Ci sono due parole che lo spiegano. La vita non è facile, ma d’altra parte noi siamo chiamati non solo ai tempi di relax ma anche ai tempi difficili. Distinguendo tra il breve e il lungo termine, nel breve termine dobbiamo aiutare la gente a guarire, ma nel lungo termine dobbiamo aiutare la gente, le generazioni a crescere. Ecco perché parlo di educazione. L’Isis era un vermicello, ma è diventato un dragone perché ha trovato gente ignorante, senza educazione. Non dobbiamo esser egoisti, dobbiamo fermare il dolore alla nostra altezza, impedendo che si trasmetta alla generazione successiva.
Come? Dobbiamo perdonare. Questa non è una parola: il tempo del perdono coincide con il tempo della guerra, perciò è questo il tempo del perdono. Se perdoniamo, vuol dire che siamo liberi; se non perdoniamo, vuol dire che siamo come loro. È la stessa cosa che disse Gandhi quando, a chi gli chiedeva “Perché non ti vendichi di quelli che ti hanno colpito?”, rispose: “Qual guadagno ne ho se inseguo il cane che mi ha morso per morderlo a mia volta? Ci troveremmo con due cani”. Questo è il motivo per cui ci vuole conoscenza: oggi in Iraq ci ritroviamo con seimila anni di civiltà ma siamo senza cultura! La conoscenza è l’arma potente contro le menti vuote dei malvagi.
Oggi noi cristiani d’Oriente guardiamo ai cristiani d’Occidente come a gente che dorme, che ha bisogno di essere scossa. Noi pensiamo di essere parte dello stesso corpo, ma la vostra parte dorme mentre l’altra parte soffre. Siamo molto delusi. Non vi rimprovero, non sono qui a mendicare aiuto. Io credo che finiranno col distruggere la nostra comunità e che ci uccideranno. Però guardate il mio volto: vi sembro spaventato? Il mio popolo ha lo stesso volto: non abbiamo paura! Per noi la nostra fede è così importante che non molliamo mai, mai! La nostra fede l’abbiamo ricevuta dal sangue delle nostre famiglie. La domanda la pongo io a voi: qualcuno menzionerà un giorno il mio popolo? Gli Armeni sono stati uccisi in un genocidio: c’è voluto un secolo perché Papa Francesco lo dicesse. Ci vorrà un altro secolo perché raccontiate il genocidio del mio popolo?
Vi lascio un compito: quando racconterete la storia del mio popolo, inserite la parte in cui i cristiani d’Italia sono intervenuti nella storia del mio popolo. Se qualcuno capisce cosa sto dicendo vince un premio: venire a Erbil. Non bastano le Bibbie: occorre il cibo, i vestiti, l’educazione. Voi mi dite che pregate per me, e io vi ringrazio di questo, ma guardate la mia gente: loro sono il Vangelo, e la preghiera è azione. Siamo cristiani dal primo secolo, staremo ancora lì fino alla fine di questo secolo? Quindi prendete una decisione. Non sono qui a mendicare qualcosa da voi. Fra trenta o quaranta anni, la nuova generazione dimenticherà chi ci ha perseguitato, ma non dimenticherà chi ha preso le difese del mio popolo. A quel punto diremo che siamo stati soli, o che della gente in Italia ci ha aiutato? Prendete la vostra decisione.