“Da Boston dico grazie al mio prof del liceo” afferma, in un’intervista al Corsera, Gigliola Staffilani. Il prof in questione è Mario Illuminati, per 35 anni docente di matematica al liceo scientifico di San Benedetto del Tronto. La Staffilani, invece, è oggi cattedratica di matematica pura nel tempio mondiale della ricerca scientifica: il Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston. Figlia di contadini abruzzesi, 49 anni, studi liceali a San Benedetto del Tronto, laurea in matematica a Bologna, dottorato negli Usa, la docente riconosce che senza quel prof al liceo che credette in lei e la invogliò a continuare gli studi oggi, forse, sarebbe nel proprio paesello d’origine a condurre una grama e rancorosa esistenza.



Daniel Pennac in Diario di scuola scrive che «è sufficiente un professore — uno solo! — per salvarci da noi stessi e per farci dimenticare tutti gli altri». Per dirla con Massimo Recalcati, «un’ora di lezione può [realmente] cambiare la vita».

La Staffilani, Pennac, Recalcati sono oggi personalità eminenti del mondo della cultura sia scientifica sia letteraria. Tantissimi altri, dai nomi meno noti, sono oggi bravi medici, avvocati, buoni padri e madri di famiglia. Per tutti loro è stato determinante l’incontro con un prof che anziché badare solo al programma, o considerare l’allievo “come una vite storta da raddrizzare”, ha preso sul serio la persona che aveva davanti, l’ha saputa valorizzare per ciò che era. Senza ridurre lo studente alla sua performance, ma aprendolo a un orizzonte più ampio del particolare della materia studiata. Daniel Pennac, che all’inizio della sua carriera scolastica aveva una pagella contrassegnata da insufficienze gravi, racconta: «Gli insegnanti che mi hanno salvato (…) non si sono preoccupati delle origini della mia infermità scolastica. Non hanno perso tempo a cercarne le cause e tanto meno a farmi la predica. Erano adulti di fronte ad adolescenti in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati. Non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, ancora e ancora… Alla fine mi hanno tirato fuori. E altri come me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita».



Nei casi citati non ci troviamo davanti a docenti che possiedono (o possedevano) particolari strategie didattiche: erano, semplicemente, educatori, uomini e donne con un’ipotesi positiva sulla vita che comunicavano con passione e la offrivano alla libertà degli allievi.

Douglas Al-Bazi è rettore di una scuola a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Rapito dai jihadisti è stato sottoposto ad atroci torture, ma una volta libero è tornato a fare scuola. Nei giorni scorsi è stato invitato in Italia a raccontare la sua storia in un istituto della Lombardia. Parlando della tragedia del suo popolo ha detto testualmente: «Veniamo torturati e uccisi, ma non smettiamo di educare». Se educare è comunicare se stessi, come si fa a smettere?



Ci chiediamo: nella Buona Scuola di Renzi il prof. Illuminati di San Benedetto del Tronto, i docenti che hanno salvato la vita a Pennac e Recalcati o il rettore Douglas Al-Bazi avrebbero diritto a un premio di merito?

La domanda non è retorica perché, come scrive acutamente Recalcati, «uno dei problemi della scuola di oggi è che gli insegnanti sono oppressi per la maggior parte del tempo da mansioni che esulano completamente dall’attività didattica».

Allora quando discutiamo della necessità di premiare il merito, di cosa stiamo esattamente parlando?

Nella scuola italiana di oggi stiamo per lo più parlando dell’impegno dei docenti nella realizzazione di progetti, che porteranno poi fondi, di attività extra-didattiche (gite, corsi di danza, di chitarra, di fitness, di segnaletica stradale) che porteranno prestigio al dirigente e al collegio docenti, di metodiche specialistiche dell’apprendimento. In tutto questo, quanto vale la “presenza” del prof in classe? E per presenza non s’intende appena quella fisica, ma soprattutto il porsi del prof con tutto se stesso davanti ai ragazzi e al contenuto della sua lezione. «La presenza dei miei allievi — annota Pennac nel suo Diario — dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all’intera classe e a ogni individuo in particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale, per i cinquantacinque minuti in cui durerà la mia lezione».

Queste osservazioni possono aiutarci a comprendere meglio i termini della posta in gioco nel dibattito sul premio al merito innescato da Renzi. Se, per un verso, non si può restare arroccati sulle posizioni vetero-sindacali dello stipendio ancorato all’anzianità di servizio senza alcuna valutazione della qualità del lavoro reso, d’altra parte è opportuno intendersi su cosa intendiamo per merito e come si fa a valutarlo.

Nella fascia di chi ha accettato, per necessità o convinzione, l’importanza della valutazione del lavoro dei prof, il dibattito, per la verità, è oggi più spostato sul “come” valutare che sul “cosa”. Infatti si discute se debba essere il preside a dare i voti agli insegnanti, o un nucleo di docenti scelti dalla stessa scuola o, ancora, un nucleo esterno. Su questo tema la discussione sta procedendo e, probabilmente, si arriverà a un ragionevole compromesso. Ma resta la questione: il prof. Illuminati, ringraziato dalla docente del Mit di Boston, o il prof che ha “salvato” Pennac riceverebbero coi criteri di oggi una valutazione favorevole? O, invece, questi docenti sarebbe surclassati nella graduatoria di merito da prof super esperti nelle strategie dell’apprendimento o da altri docenti che, pur sacrificando ore di lezione e destino dei loro allievi, hanno prodotto progetti interessanti per l’istituto, hanno organizzato gite o incontri di marketing aziendale?

A queste domande la scuola deve provare a rispondere se vuole essere per davvero una Buona Scuola.