Qualcosa è cambiato nel rapporto tra scuola, società civile, politica, governo. Il sistema educativo nazionale — questa è l’espressione migliore per definire che cos’è la scuola — è tornato al centro dell’attenzione delle famiglie, dei mass media, del Parlamento. A questo cambio degli sguardi ha contribuito in modo decisivo il governo Renzi con il documento “la Buona Scuola” e con il disegno di legge relativo, in discussione in questi giorni alla Camera.
Nella sua recente “lezione alla lavagna” — ma ci saremmo aspettati la Lim — Matteo Renzi ha spiegato che la scuola non è del governo, non è dell’amministrazione, non è dei sindacati: è dell’intera comunità civile, rappresentata in Parlamento, è il luogo strategico dal quale il Paese può ripartire. L’Italia non sarà mai una superpotenza politica, militare, economica. Ma può diventare “una superpotenza” culturale. Basti pensare che il 60 per cento dei beni culturali mondiali sta racchiuso nei confini della nostra piccola Penisola di 60 milioni di persone. E’ una civilizzazione. E’ il nostro petrolio, la nostra materia prima. Pertanto, che si costruisca un sistema educativo all’altezza di questa civilizzazione, che sia in grado di gestirla e di moltiplicarla come i talenti della parabola, è un’ambizione realistica, per niente affatto smodata.
Qui incomincia il ballo, tuttavia. Una delle questioni cruciali è quella dell’architettura dei poteri e delle responsabilità all’interno del sistema e in ogni singola scuola. Questo tema sta a monte rispetto agli snodi essenziali del curriculum, degli ordinamenti, delle politiche del personale, della governance delle scuole, di cui si discute nel ddl. Ed è su quel “monte” che si è acceso lo scontro politico.
L’attuale struttura del potere nel sistema nazionale della pubblica istruzione e, di conseguenza, nelle singole scuole è stata costruita agli inizi degli anni 70. Prima, fin dai tempi di Giovanni Gentile, per non andare indietro fino a Gabrio Casati (1859), la politica, sotto forma di ministro e di Parlamento, decideva sui quattro “snodi”; toccava all’amministrazione centrale implementare le decisioni e governare quotidianamente il sistema. Il preside aveva un potere assoluto, limitato da procedure e circolari. Per esempio, dava un giudizio finale insindacabile sull’insegnante. Assai più del paventato preside-sceriffo. Sul finire degli anni 60, con l’avvento della scuola di massa — a seguito della scuola media unica del 1963 — e con l’insorgenza dei movimenti di contestazione nelle università e a ritroso nelle scuole superiori, la politica rispose alla domanda di partecipazione con la legge delega del 30 luglio 1973, attuata con i cinque decreti delegati del 31 maggio 1974.
In particolare, il Dpr 416, il primo dei cinque, definiva gli organi collegiali e gli organi della partecipazione democratica. Organi collegiali: consiglio di classe o interclasse, collegio dei docenti, consiglio di istituto, giunta esecutiva, consiglio di disciplina degli alunni, comitato di valutazione del servizio degli insegnanti. Veniva istituita anche la figura del vicepreside. Organi della partecipazione democratica: il circolo o istituto, il distretto scolastico, la provincia, infine la nazione intera.
A livello nazionale: il consiglio nazionale della pubblica istruzione. Il Dpr dettava anche le norme per lo svolgimento delle elezioni degli organi, stabiliva il principio dell’autonomia amministrativa delle scuole e la costituzione di un albo pubblico d’istituto o di circolo. Riconosceva il diritto di assemblea di classe e di istituto degli studenti e dei genitori.
Alcuni elementi sono stati in seguito modificati, ma la struttura è rimasta la stessa fino ad oggi. Rispetto al lungo periodo precedente, i mutamenti sono notevoli: nelle scuole si affermò un regime assembleare, che trovò nel collegio dei docenti il suo parlamento. Nel quale tutti gridavano, nessuno decideva, nessuno era responsabile di nulla, nessuno rispondeva a nessuno. Il preside — che sarà trasformato in “dirigente” con le leggi Bassanini della fine del secolo scorso — continuava ad essere designato dall’alto, reclutato attraverso concorsi e graduatorie, ma il suo potere è diventato sempre più quello di un primus inter pares. Intanto nel collegio si affermava fortemente il potere dei sindacati e delle Rsu, come effetto della massiccia sindacalizzazione degli anni 70.
A livello centrale, la presa del sindacato sui dipartimenti e il personale ministeriale si fece più stringente. Alla fine degli anni 90, le colonne portanti e consolidate del governo del sistema nazionale dell’istruzione sono l’amministrazione centrale e il sindacato. E la politica, democraticamente legittimata dal Parlamento eletto dai cittadini? E’ sempre di più costretta a passare sotto le forche caudine dei due soggetti e a con-trattare politiche e uomini con l’amministrazione e il sindacato. Il ruolo politico dell’amministrazione fu enormemente potenziato, benché non volontariamente, dal ministro Franca Falcucci a metà degli anni 80. Avendo dovuto prendere atto che al Parlamento l’ennesima proposta di riforma della scuola media superiore non interessava proprio, decise di bypassarlo e di procedere alle riforme per via amministrativa. La Commissione Brocca — dal nome del sottosegretario che la presiedette — diventò lo strumento della riforma amministrativa della scuola media superiore.
L’amministrazione ne sortì, alla fine, come un vero proprio soggetto politico. Quando Luigi Berlinguer andò a Trastevere nel 1996 si trovò di fronte un blocco di potere costituito da due soggetti politici intrecciati: l’amministrazione e il sindacato. Saranno loro, soprattutto il secondo, a farlo cadere.
Renzi si trova di fronte lo stesso campo di battaglia. Per porre mano al curriculum, agli ordinamenti, alle politiche del personale, all’autonomia e alla governance, alla valutazione esterna del sistema, al finanziamento della scuola paritaria deve superare le resistenze di quel blocco. Luigi Berlinguer suggerisce a Renzi, nell’intervista rilasciata a questo giornale, di non prendere quel blocco di petto, ma dividerlo. L’ex-ministro ritiene che “i confederali” vogliano le riforme e che solo “i corporativi” siano contrari. Però il quadro che lui propone non risponde più alla realtà, per due ragioni. Intanto, perché in questa fase è proprio la Cgil, fatta ormai di pensionati e di pubblici dipendenti, il traino e il bacino della protesta più corporativa. Ma, poi, la posta in gioco non sono le riforme, sui cui contenuti si può discutere, emendare, mediare.
Il punto di scontro, che non riguarda solo la scuola ma l’intera società, è il ruolo del sindacato rispetto alla politica. La Cgil della Camusso è ferma al sindacato-codecisore, ai tavoli di concertazione, ai poteri di veto. La filosofia è quella del sistema consociativo classico: senza di noi non si può muovere foglia. Tanto più nel pubblico impiego e nelle scuole, dove le Rsu sono abituate a egemonizzare, quali minoranze organizzate, interi collegi e a tenere sotto tiro i dirigenti. No, il campo di battaglia si è spostato: non le riforme, ma il potere politico tout court.
Di qui la centralità emblematica della vicenda del preside-sceriffo. Mentre i sindacati corporativi si battono per obiettivi qui e ora, quelli confederali fanno le vedove in gramaglie di un sistema politico in cui la loro voce era determinante. Renzi non ha mai smesso di ricordare che è il Parlamento a prendere le decisioni che riguardano il Paese — e la scuola è una di quelle —, non sono i tavoli dove stanno seduti segretari di partito, segretari di sindacato, tecnocrazie ministeriali, datori di lavoro, padroni delle banche. Le cronache raccontano che alla fine dell’ultimo incontro governo-sindacati sulla scuola, la Camusso, che era andata a riscuotere il bonus dello sciopero del 5 maggio come sempre storicamente accaduto dopo gli scioperi generali, non si decideva a lasciare il tavolo, lamentando solitaria e ad alta voce: “Dove sono le decisioni?!”, mentre i partecipanti sfollavano. Un sottosegretario, invitandola a prendere atto che la riunione era terminata, le ha ricordato gentilmente che è il governo, con l’approvazione del Parlamento, che prende le decisioni.
Quella postura della Camusso è più eloquente di ogni discorso. La scuola è di tutti, non dei sindacati. Chiarito questo, si può discutere su tutto. Mestiere del sindacato è difendere la forza lavoro, non quello di progettare le istituzioni educative del Paese. Sembra banale, ma questo è il centro del conflitto. Si poteva evitare la coincidenza con le elezioni regionali? Renzi si è reso conto della posta in gioco? Io credo di sì. Lo scontro è acceso da quando Renzi ha conquistato la segreteria del partito e il governo.