Il premier Renzi sarà pure soddisfatto che la scuola finalmente sia al centro del dibattito nel paese, ma è evidente a tutti come più che di un dibattito si tratti di uno scontro dai tratti palesemente politici che sembrano trascendere i contenuti del ddl. Scontro, dunque, tra due posizioni: una preistorica e in controtendenza col resto del mondo, dei sindacati, ricompattati per l’occasione per la prima volta dal 2007 (anche allora, come oggi, c’era un governo di centrosinistra) ed una riformista, ma un po’ ingenua, del governo.
Da una parte un mondo sindacale, trainato dalla Cgil, che rifiuta l’alternanza scuola-lavoro, presente in tutta Europa, ignorando realtà come quella del sistema duale tedesco il cui modello vincente ci aiuterebbe a risolvere il grave problema della dispersione scolastica, arrivata a livelli insostenibili. Che respinge l’abbattimento di un vecchio tabù ideologico come rendere obbligatori i percorsi di alternanza scuola-lavoro anche in quei luoghi intoccabili che sono i licei, che vorrebbe dire il superamento del radicato paradigma gentiliano per aprire finalmente un varco alla valenza formativa delle esperienze di lavoro e pratiche nel panorama teorico dell’istruzione.
I burosauri, ancor oggi depositari di battaglie ideologiche tanto anacronistiche in una Ue dove vige ovunque il principio di libertà educativa imperniato sulla molteplicità delle offerte formative, si scagliano autolesionisticamente anche contro le donazioni volontarie del 5 per mille e le previste detrazioni alla scuola paritaria, contrabbandandole, scorrettamente, come ulteriori soldi spesi per le scuole private. Ma si tace sul fatto che circa un milione e 200mila studenti delle scuole paritarie (di cui è il caso di ricordare che solo il 6,3 per cento sono cattoliche), se queste dovessero essere istituite dallo Stato, graverebbero sulle nostre casse.
Come pure l’accanimento, rivitalizzato per l’occasione, contro le misurazioni Invalsi, di cui si finge di non sapere che lo scopo precipuo è che, una volta restituite alle scuole, serviranno agli insegnanti per riflettere sulle carenze evidenziate e poter ritarare la didattica in modo da garantire quell’equità dell’offerta formativa in tutto il Paese, oggi a macchia di leopardo.
D’altra parte il fatto che molte scuole siano rimaste chiuse il giorno dello sciopero, denota lo stato di disagio della categoria degli insegnanti che certamente è stato colpevolmente sottovalutato.
Un disagio certamente giustificato da anni di mancato riconoscimento professionale, di un contratto scaduto da troppo tempo, di pioggia di norme non legislative ma imposte dall’amministrazione che hanno riversato nuovi ed ulteriori compiti sui docenti. Si pensi a tutte le complesse problematiche sui Dsa, Bes, Adhd da gestire; un Clil che, vista l’inerzia dell’amministrazione, ha lasciato le scuole ad arrangiarsi da sole in vista del prossimo esame di stato; il complicarsi della situazione del precariato; le nuove indicazioni nazionali del I ciclo da attuare e, manco a dirlo, l’attuazione della riforma degli ordinamenti della secondaria che giunge quest’anno a compimento, con un esame finale che è ancora un’incognita in molte sue parti.



Sullo sfondo quindi si staglia il progetto di riforma del Governo che, con l’obiettivo di realizzare quell’autonomia che aspetta da 15 anni, unitamente alla volontà di riappropriarsi di quel ruolo che i governi precedenti avevano delegato alle forze della conservazione (e che finora hanno impedito la necessaria innovazione), ha fatto da detonatore ad una situazione che si è ignorato quanto fosse esplosiva.
Come pure è stato ingenuo pensare di rafforzare sulla carta il potere dei dirigenti senza una contestuale riforma della governance, rinviando ad una delega sine die la riforma degli organi collegiali datati 1977, che sono assolutamente incongrui con il contesto sociale attuale.
Se Renzi punta, correttamente, a realizzare l’autonomia incompiuta di cui il vero core è l’autonomia didattica, che le scuole dovrebbero attuare per rendere l’insegnamento più appetibile ed aderente alle esigenze formative più diversificate della società e del lavoro e che oggi la legge consente fino ad una flessibilizzazione del 40 per cento del curricolo, è necessario che al dirigente scolastico, che ne ha la responsabilità progettuale e di risultato, vengano forniti non generici poteri bensì gli strumenti idonei.
Primo tra questi è la presenza di un team di docenti “esperti”, con competenze formate e certificate sia sul piano disciplinare che organizzativo che lo affianchi e ne condivida le competenze. Card e bonus premiali (ma per carità non attribuiti dall’utenza) sono certo meglio di niente, ma non possono riformare un’organizzazione del lavoro complessa come l’attuazione dell’autonomia richiede. Ribadiamo quindi come la proposta ormai storica della carriera professionale dei docenti e di un nuovo stato giuridico sia anche congrua e funzionale alla prospettiva di una dirigenza scolastica pubblica che abbia le caratteristiche di leadership educativa.
Ma purtroppo di tutto questo ancora non v’è traccia nel ddl.
Tuttavia bisogna non disperdere quanto di innovativo questo propone, perché certamente sarebbe puro autolesionismo chiederne il ritiro tout court invece di ottenere quelle modifiche migliorative e necessarie che proprio il successo dello sciopero potrebbe garantire. Del resto, rispetto al progetto presentato a settembre non si può negare che non ci sia stata un’evoluzione su vari argomenti (basti ricordare gli improbabili scatti di competenza al 66 per cento dei docenti con 60 euro ogni tre anni!).
Rinunciare ai principi in grado di far funzionare l’autonomia come l’organico funzionale, il principio del merito e della valorizzazione degli insegnanti, una idonea formazione obbligatoria, che pure ci sono nella legge e che vanno migliorati, sarebbe oggi puro autolesionismo per tutti.

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