Via libera alla Camera al ddl sulla Buona Scuola. Tra gli articoli approvati il n. 3 riguarda il piano triennale dell’offerta formativa, in sé assolutamente fondamentale perché definisce l’identità culturale e progettuale delle scuole. In questo quadro, è passato un emendamento che recita testualmente che detto piano, in riferimento alla legge n.119/2013, deve assicurare “l’attuazione dei princìpi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate, ecc.”.
Al di là delle polemiche tra chi sostiene l’ideologia gender e chi la combatte, sorge spontanea una domanda. Di che cosa stiamo parlando? Di educazione, sembrerebbe. Infatti nella scuola dovrebbe accadere che chi studia si imbatta non solo nei contenuti, ma anche nelle ragioni complessive per cui essi vengono insegnati. L’educazione è un rapporto libero che interviene tra due libertà, quella dell’adulto che ha un senso da comunicare attraverso ciò che insegna e quella di un alunno, un gruppo di alunni, una classe che decidono di seguire l’insegnante non solo in quello che dice, ma anche nella particolare relazione che egli instaura con la realtà. L’educazione è diretta alla persona, cioè coinvolge tutto l’insieme dei desideri, degli interessi, delle potenzialità di cui una persona è costituita. Se nella scuola non solo si insegna, ma anche si educa, secondo dinamiche personali che non possono essere programmate, è molto facile che all’interno delle mura scolastiche si generino compagnie e atti di vera fiducia reciproca tra adulti e giovani che proseguono ben oltre le ore di scuola.
Sarebbe davvero un peccato se una riforma della scuola in buona parte condivisibile nell’intenzione di superare determinati freni statalistici nella concezione dell’autonomia scolastica, nella gestione dei rapporti con il territorio, nella costituzione di un organico funzionale di istituto si impantanasse ideologicamente sul punto, che per la verità torna ostinatamente in tutte le riforme, di volere impartire agli insegnanti regole su quello che devono dire e quello che devono fare. L’insegnante sarà pienamente considerato tale, dunque un professionista di cui la società ha bisogno, nella misura in cui sarà accompagnato ad approfondire la cultura umana e professionale dalla quale deriva e che, magari, ha perso per la strada negli anni passati in cattedra, tanti o pochi che siano. Non altro. Se mi interessano le persone cui insegno, se le guardo, se le vedo non solo come “oggetti” di apprendimento, ma soprattutto “soggetti” capaci di partecipare al gusto della ricerca, non ho forse cura di accoglierli nella totalità della loro persona, costituita da tutti i fattori che ne definiscono ora l’identità?
Mi si viene a dire che l’insegnante che ogni giorno vive il rischio della libertà di rapporto con i propri alunni deve approntare magari qualche lezioncina sulla parità di genere, prevenzione della violenza di genere et similia. È il momento di affermare che le lezioncine, appaltate perfino ad esperti, non bastano. Chi educa come può sottrarsi alle sfide globali che gli alunni pongono quotidianamente? Chi insegna ed educa dentro un rapporto di conoscenza e comprensione piena di attenzione verso i propri ragazzi non comunica già un senso, un criterio alla luce del quale ciascuno potrà svolgere il proprio cammino personale anche di scoperta vera della propria identità? C’è bisogno di un documento ministeriale che ce lo venga a dire?