Nei giorni scorsi, all’inizio della discussione in Commissione cultura del ddl Buona Scuola, su queste pagine avevo “consigliato” al presidente del Consiglio di non cedere alla tentazione, per rispettare i tempi che si era proposto, di non prendere in considerazione i molti emendamenti, poiché alcuni contenevano proposte utili a migliorare il testo ed in prospettiva un progetto innovativo di scuola.
A passaggi effettuati, in Commissione e in aula, dovrei ritenermi soddisfatto poiché il testo uscito dal voto finale della Camera è quasi raddoppiato rispetto all’originale, indice di un’apertura alle modifiche ed al confronto, ma si rendono necessari alcuni distinguo.
L’apertura al confronto ed il recepimento di alcuni emendamenti non hanno snaturato alcuni aspetti fondamentali positivi di innovazione, aspetti che, scontrandosi con la conservazione e la difesa di rendite di posizione, hanno inevitabilmente causato sciopero e manifestazioni di protesta.
Primo fra tutti è l’avvio concreto verso un sistema che abbia come riferimento l’autonomia, come prevede l’art. 1 che sicuramente avvia un grande cambio culturale perché va ricordato che “autonomia” si incrocia in modo sinergico con “responsabilità”, con tutte le conseguenze e le declinazioni pratiche e culturali che questo comporta. Per raggiungere questo obiettivo vale l’ottimo consiglio del ministro Giannini a tutto il mondo della scuola: “abbiate fiducia di essere protagonisti dell’autonomia“.
Questa impostazione ha comportato l’inevitabile ridisegno della figura del dirigente scolastico: dargli più “poteri” decisionali, e responsabilità di gestione anche finanziaria e organizzativa compresa la diretta assunzione dei docenti, come avviene in tutti paesi più avanzati, è una condizione sine qua non per la realizzazione dell’autonomia, con tutti i benefici per la qualità del sistema scolastico che si sono riscontrati nei paesi citati.
I distinguo necessari cui facevo riferimento non si riferiscono ai pilastri positivi che altri provvederanno o hanno già provveduto ad illustrare, come alternanza scuola-lavoro, merito, assunzioni che portano all’avvio dell’abolizione del precariato, flessibilità per evitare classi troppo numerose, school bonus eccetera, ma alla limitata attenzione, tanto per cambiare, al settore delle scuole paritarie che da questo disegno di legge rischiano di uscire ulteriormente in difficoltà.
A fronte dell’importante “vittoria culturale”, ma solo “simbolica” nel concreto, della possibilità di detrazioni fiscali da parte dei genitori per la retta pagata per la frequenza dei loro figli nelle scuole paritarie — un provvedimento, come ha ricordato il sottosegretario Gabriele Toccafondi, che rappresenta “una novità immensa ed un risultato straordinario, se si pensa che per 70 anni nessuno in questo paese aveva provato a portare in Italia, poiché, finalmente, lo Stato riconosce che ciò che i genitori spendono per le rette delle paritarie sono soldi spesi per istruzione pubblica” — il ddl ha avuto l’approvazione di emendamenti che possono mettere in seria difficoltà l’intero settore delle scuole paritarie.
Non mi riferisco all’abolizione dell’art. 17 relativo al 5 per mille a favore di “tutte” le istituzioni scolastiche già ben commentato su queste pagine che, se stralciato dei beceri commenti ideologici senza fondamento di alcune parti politiche, può avere una logica di maggior riflessione in relazione alla necessità della costituzione di un fondo apposito al fine di evitare la “solita guerra tra poveri”, attingendo dallo stesso fondo, con il terzo settore e la ricerca; ma al “blitz” dell’ultimo momento in Commissione, opera di un parlamentare Pd, che sul capitolo legato “all’introduzione di un sistema unitario e coordinato che comprenda sia la formazione iniziale dei docenti che le procedure per l’accesso alla professione”, ha fatto approvare un emendamento che pone obblighi organizzativi insostenibili dalle scuole paritarie in ordine al reclutamento dei docenti.
Tale emendamento ha introdotto nell’art. 23 comma 2 punto 2.8 una norma per la quale per i nuovi assunti nella scuola paritaria occorrerà “che il conseguimento del diploma di specializzazione di cui al n. 3, punto 1), costituisca il titolo necessario per l’insegnamento nelle scuole paritarie”.
Di fatto l’applicazione di tale norma porterebbe alla graduale chiusura delle scuole paritarie per impossibilità di reperire docenti sul mercato del lavoro, poiché il diploma cui fa riferimento il comma citato si inserisce nel contesto della preparazione iniziale degli assunti nelle scuole di Stato.
La ratio della norma, di per sé corretta per un’assunzione da parte dello Stato, prevede un contratto triennale in cui durante il primo anno il docente ha l’obbligo della frequenza di una scuola di specializzazione per conseguire il diploma utile al completamento della sua abilitazione.
Pensare che un docente assunto dallo Stato lasci il suo incarico dopo il conseguimento del diploma per essere assunto da una scuola paritaria è “fantareclutamento”, e se questo dovesse avvenire dopo il terzo anno si baserebbe su una non riconferma dello Stato con trasformazione del contratto a tempo indeterminato, ossia per una persona ritenuta non idonea, quelli che in qualche articolo di giornale di questi giorni qualcuno ha definito gli “scarti” dello Stato.
Il problema è grave ed è stato sollevato un ordine del giorno presentato dall’on Centemero (9/2994-A/67) approvato dall’Assemblea. Occorrerà trovare una soluzione che permetta un “mercato del lavoro libero”, pur in linea con la nuova impostazione abilitante voluta dal ddl, come lo si era ottenuto negli anni precedenti, in forma diversa, con la separazione tra abilitazione e reclutamento.
Ci auguriamo che nel passaggio della legge al Senato si provveda alle dovute modifiche e che non si continui a legiferare come se la scuola fosse solo statale, dimenticandosi che da 15 anni esiste una legge che ha sancito la presenza di un unico sistema nazionale che comprende scuole statali e paritarie con pari dignità.
Non basta qualche concessione valoriale, affitti, stipendi e costi non si onorano con i “valori”, ricordiamoci che la mancanza di contemporaneo intervento economico ha ridotto l’efficacia della legge 62/2000, abbiamo bisogno di non essere più considerati “figli di un dio minore”, insultati dalle piazze con falsità, e spesso discriminati. Siamo orgogliosi del servizio pubblico che offriamo e che spesso supplisce quello mancante dello Stato. Chiediamo solo rispetto, rispetto della Costituzione e della legge di parità, norme che ci permettano di “vivere”, di continuare a fornire un servizio pubblico di qualità, di dare lavoro ai nostri docenti ed ai nostri dipendenti.