Il Miur ha da poco pubblicato i dati definitivi sulle iscrizioni alle superiori che solo in parte confermano i numeri con enfasi presentati a febbraio, quando ancora mancavano molti studenti ritardatari e renitenti al meccanismo delle iscrizioni online.
I titoli che allora avevano commentato “l’impetuosa avanzata dei licei” o il “tracollo dei professionali” devono oggi essere ridimensionati, anche se si confermano le linee di tendenza principali: i licei superano di poco la soglia psicologica del 50% (+1,1% sull’anno precedente), i tecnici sono in leggera flessione (-0,3), i professionali perdono lo 0,8% (18,6% del totale). Non è vero che il classico tiene, perché anche quest’anno il calo c’è, lento, ma irreversibile (5,8% del totale iscritti contro il 6,0 dello scorso anno). Sul fronte delle lingue morte anche lo scientifico col latino segna il passo a favore dell’opzione senza latino (travaso dello 0,5% quest’anno e -2,7 % in tre anni a favore di scienze applicate e liceo sportivo).
Nel momento in cui tutta l’attenzione è concentrata sui provvedimenti della “Buona Scuola” viene naturale chiedersi se anche i dati delle iscrizioni segnalino una situazione che chiede cambiamenti radicali e liberazione di nuove risorse.
I liceali crescono dunque; peccato che non altrettanto crescano i laureati che invece dovrebbero essere il prodotto naturale di una licealizzazione della secondaria. Gli elevati dispersi all’università dimostrano, insieme ai limiti delle nostre università, la bassa consapevolezza di prospettive che accompagna la scelta degli studi secondari.
Cresce poi sicuramente il livello di compartimentazione sociale (segregazione?) delle scelte scolastiche. Gli studenti di cittadinanza non italiana sono sempre più incidenti percentualmente sulla popolazione scolastica complessiva (7% su base nazionale, ben oltre il 20% in alcune aree del Paese), ma rimangono fortemente concentrati sui professionali. La scuola italiana, per usare una espressione passata di moda, è sempre più “di classe”, almeno se con ciò si intende che la distribuzione dei suoi studenti dipende più dalla sociologia che dalle attitudini.
E crescono le stereotipie legate al sesso degli studenti: le scienze umane sono al 90% “cose da donne”, il tecnico-tecnologico è maschile all’84%, il classico e il linguistico sono di schiaccianti maggioranze femminili, eccetera.
C’è poi la geografia dei risultati a segnalare che non esiste una sola Italia, scolasticamente parlando, nemmeno quando si devono scegliere le scuole superiori. L’ amore per il greco resiste al Centro-Sud (con il primato del Lazio quasi al 10%), ma è quasi residuale al Nord (attorno al 4%, cioè meno che l’artistico). Il dato complessivo dei licei è in Veneto di poco superiore al 40% mentre nel Lazio supera il 60%.
Discorso a parte merita il mondo dei tecnici, globalmente da anni attorno al 30% degli iscritti totali, nonostante periodici e infondati annunci di ripresa. Cambia però la fisionomia degli studenti che scelgono una formazione tecnica, perché la crescita dei licei e il corrispettivo calo dei professionali lascia intravedere un travaso dell’utenza tradizionale del professionale sul tecnico e di quella del tecnico sul liceo.
Il sistema scolastico italiano resta a scalini digradanti e chi può abbandona il gradino più basso cercando di occupare un posto ritenuto più prestigioso. Innegabilmente il gradino più basso rimane quello dei professionali dove, paradossalmente, la differenza di consistenza del tessuto produttivo non si traduce in effettive differenze nei numeri delle iscrizioni: le regioni italiane che hanno più iscritti ai professionali sono infatti Puglia e Basilicata (22%), quelle che ne hanno di meno (attorno al 15%) sono Abruzzo e Molise.
Emerge forse qui il punto più critico di tutto il bisogno di cambiamento della scuola italiana, che quest’anno porta a regime il riordino della Gelmini e si segnala per la mancanza di una seria politica nazionale di qualificazione dell’istruzione tecnica e professionale. Su quest’ultimo settore pesa l’inerzia di molte Regioni che si sono sottratte al compito di promuovere un rinnovamento della formazione professionale. Ma la dichiarata volontà governativa di rilanciare un rapporto organico con il mondo del lavoro non si può fermare all’introduzione, pur positiva, di un monte ore obbligatorio di stages e alternanze. Se questo è un segnale positivo di attenzione, risulta anche insufficiente senza un più radicale ripensamento dei curricoli tecnico-professionali, senza una più decisa liberazione delle autonomie scolastiche nella loro capacità di costruire percorsi adatti ai contesti produttivi e alle esigenze formative, senza una effettiva possibilità di destinare gli insegnanti migliori ai settori scolastici più problematici, senza una scelta di orientamento delle risorse, poche o tante che siano, al sostegno dell’istruzione tecnica e professionale.