La grande illusione secondo cui si potrebbe far funzionare la scuola senza un autentico e moderno sistema gestionale, pensando che possa essere sostituito da millimetrici automatismi procedurali garantiti dalla legge si infrangerà — ancora una volta — sul tema delle supplenze, generatrici storiche del precariato.

La nuova legge della Buona Scuola vorrebbe, finalmente, eliminare per sempre il precariato con la chiusura delle graduatorie e la precisazione del procedimento di immissione in ruolo. Solo concorsi, triennali, puntuali, regolari. Ma all’ultimo momento la fase successiva al concorso è stata ulteriormente articolata, legando l’assunzione definitiva al conseguimento del diploma di specializzazione. Più specificamente è previsto: 



Nella stipula con i vincitori di un contratto retribuito di formazione e apprendistato professionale a tempo determinato, di durata triennale;

Nel conseguimento, nel primo anno di contratto, di un diploma di specializzazione all’insegnamento secondario;

Nell’effettuazione, nei due anni successivi al conseguimento del diploma, di tirocini formativi e graduale assunzione della funzione docente;



Alla conclusione del periodo di formazione e apprendistato professionale, valutato positivamente, sottoscrizione del contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Quindi di fatto tre anni di prova con il primo anno generatore dell’abilitazione all’insegnamento. 

Oltre ai guai per le assunzioni nelle scuole paritarie, ben descritti da Roberto Pasolini, la procedura complicherà e porterà davanti ai tribunali innumerevoli cause dei non assunti. Per cui la copertura definitiva e puntuale dei posti liberati annualmente dai pensionamenti o da dimissioni di altro genere appare sicuramente come un sogno irrealizzabile.



Ma intanto l’anno scolastico inizierà (fortunatamente) con l’inesorabilità del tempo reale e quindi bisognerà ancora ricorrere ai supplenti per coprire le necessità degli alunni reali.

E così il mostro del precariato scolastico risorgerà.

Ed apparentemente non esiste via d’uscita. L’assenza del docente deve assolutamente essere coperta subito e quindi tra pensionamenti non rimpiazzati, malattie, permessi per motivi di famiglia il supplente è ineliminabile. L’organico eccedente non serve perché nemmeno un organico doppio del necessario potrebbe garantire la copertura delle assenze (imprevedibili) in tutte le materie. E chi ha una supplenza oggi sicuramente avrà più punti che gli garantiranno la precedenza domani. E dopo 36 mesi …dentro! Per legge!

Eppure una via d’uscita equa, ragionevole e funzionale esisterebbe e provo a spiegarla.

Per le supplenze brevi fino a 10-15 giorni si potrebbe usare il personale in servizio dotandolo di qualche ora settimanale ad hoc. Ciò potrebbe essere fatto a costo zero riducendo l’ora di lezione da 60 a 45 minuti. Così, oltre a salvare il nostro povero alunno paria dell’Europa, si doterebbe ogni docente di 4,5 ore settimanali di tempo residuale che potrebbe essere dedicato alle supplenze brevi, al recupero mirato ed all’offerta di attività opzionali pomeridiane.

Per le supplenze lunghe si dovrebbe ricorrere alla chiamata esterna del supplente. Società autonome o cooperative o singole partite Iva potrebbero essere chiamate dalla scuola per la copertura del periodo di assenza del titolare, con pagamento a fattura della prestazione. In poco tempo si creerebbe sul normale mercato un sistema vitale di assunzioni di personale docente dedicato alle supplenze lunghe nello Stato. Questo personale sarebbe automaticamente selezionato dalla domanda delle scuole e si darebbe a tutti i laureati la possibilità di misurarsi con la professione in un quadro normativo reale, con i dinamismi tipici dei posti di lavoro comuni.

L’esperienza maturata consentirebbe poi a chi lo desiderasse di partecipare con tempismo assoluto ai ricorrenti concorsi pubblici con maggiori possibilità di successo di chi non avesse svolto un effettivo tirocinio. Anche il tirocinio universitario potrebbe facilmente inserirsi nello spazio generato da questa procedura.

Consentirebbe anche ai non portati per l’insegnamento di verificare rapidamente la propria inadeguatezza e cercare altre vie di impiego. Insegnare oggi senza un minimo di passione e di attitudine può essere rischioso (oltre che per gli alunni) per la salute anche mentale del lavoratore.

Lo Stato definirebbe il titolo di studio minimo per quel tipo di prestazione che potrebbe essere anche la semplice laurea. 

In questo modo la copertura delle stringenti necessità didattiche sarebbe assicurata e anche l’ansia continua prodotta dal problema nell’organizzazione della scuola statale sarebbe azzerata.

Mi è sempre rimasta nella memoria l’esperienza dell’alunno diversamente abile più grave della mia carriera. In mancanza del titolare chiamai svariati supplenti di sostegno per 4 anni consecutivi. Lo psicologo consigliava un docente uomo per i forti problemi relazionali che si instauravano con le docenti. Ovviamente la graduatoria se ne infischiava delle indicazioni dello psicologo e regolarmente si scatenava la contro-dipendenza patologica dell’alunno. Diverse supplenti “fuggirono” o rifiutarono l’incarico l’anno successivo ma la storia non ebbe sbocchi finché, passato l’alunno alla scuola media, si riuscì ad assegnare un titolare maschio e la vicenda si pose su un binario accessibile. 

Esempi di compresenza nella scuola di personale statale e non ce ne sono già parecchi, dagli assistenti comunali per alunni diversamente abili, a psicopedagogisti, ad esperti di vario genere che affiancano gli insegnanti su progetti particolari. Quindi la soluzione da me prospettata non avrebbe bisogno di una catastrofe concettuale o lessicale ma solo della volontà di risolvere i problemi.

E’ chiaro che con questo metodo il numero di persone impegnate sul terreno formativo non diminuirebbe ed anzi la stabilità dei rapporti di lavoro complessivi sarebbe aumentata. Così come con la creazione effettiva di un sistema duale di scuola pubblica parificata e statale. 

Purtroppo la resistenza a soluzioni occupazionali efficaci ma non statali è fortissima. Da noi,  specialmente nella scuola, qualunque ragionamento sull’occupazione che non si concluda con “l’immissione in ruolo” statale è visto male. Errore grave. Questa mentalità ha creato una doppia distorsione. Chi lavora nel pubblico è troppo garantito e chi lavora nel privato (e sono 4 persone su 5) lo è troppo poco. I costi delle garanzie al pubblico impediscono inoltre investimenti sulle protezioni generali per tutti i lavoratori e le deboli coperture per il privato spingono verso l’impiego pubblico. Una spirale senza sbocchi.

La spinta verso il posto pubblico andrebbe analizzata anche in generale, al di fuori della scuola, perché ormai è diventata un dramma nazionale. Il richiamo del posto nel pubblico impiego infatti è fortissimo da decenni. Non solo per il centro-sud alla ricerca spasmodica di una rendita laddove il posto di lavoro è carente, ma anche al nord. Al nord la spinta verso il posto al comune o alla provincia o alla regione è cresciuta negli anni, dopo un periodo del dopoguerra in cui il basso stipendio pubblico era spesso scoraggiante rispetto al posto privato.

La base di fondo della spinta è la sicurezza del posto ed un lavoro quantitativamente meno impegnativo anche se poco gratificante o perfino frustrante per le persone intraprendenti.

Ma perché la risposta al bisogno di sicurezza economica e di tranquillità operativa deve essere data nel e solo nel pubblico impiego? Questa è la vera domanda che dovrebbero porsi i pedanti e a volte ossessivi sostenitori dell’equità e dell’uguaglianza. Perché nel pubblico impiego l’orario è di 36 ore settimanali contro le 40 del privato? 36 ore effettive, senza intervallo mensa che per il privato porta a 45 le ore reali dell’impegno lavorativo. Perché l’insegnante della regione Lombardia figura con un orario di servizio da impiegato (36 ore settimanali) mentre quello statale ne ha 18? Perché solo nel pubblico esiste il “pagamento” tramite accelerazioni del percorso pensionistico come l’insegnamento in situazioni particolari (carceri, piccole isole)?

Ho conosciuto di persona un pensionato che a 60 anni andò in pensione con 55 anni di “servizio”, e quindi 2 pensioni, ottenuti aggiungendo il regalo di 7 anni per ex combattenti dato solo agli statali più il raddoppio degli anni di servizio presso l’arsenale di Taranto.

Probabilmente il sindacato ha cercato di fare del pubblico impiego, oltre che lo strumento improprio per affrontare la questione meridionale, lo strumento per accelerare “l’emancipazione dei lavoratori dalla schiavitù del lavoro salariato”. Metto tra virgolette questa frase che oggi ha un suono quasi biblico ma che fino a qualche decennio fa corrispondeva al sentire ed al linguaggio delle nuove élites in formazione nelle università. Lo stato doveva essere uno strumento per la fustigazione del capitalismo. Ed il trattamento speciale riservato ai dipendenti pubblici acquisiva così non il carattere di un privilegio, ma quello del buon esempio da generalizzare.

La crisi economica mondiale (assai più del crollo dei paesi socialisti e dei miti ad essi collegati) ha azzerato certi ragionamenti fatti al di fuori del reale calcolo economico. E adesso siamo qui, con meno illusioni ma con più libertà di trovare soluzioni vere ai problemi.