Chiunque abbia insegnato materie umanistiche in università americane nell’ultimo decennio o giù di lì, e abbia seguito (anche semplicemente leggendo i titoli delle relazioni e tavole rotonde che vengono organizzate) l’attività delle varie associazioni professionali d’ambito umanistico — in primo luogo naturalmente la colossale macchina della “Modern Language Association” (Mla), ma anche specificamente la “American Association of Italian Studies” (Aais) che (buona notizia) è cresciuta molto negli ultimi anni — ha dovuto fare i conti con un fenomeno per cui la vecchia etichetta di “correttezza politica” si rivela ormai pateticamente insufficiente. 



Quello che è da tempo cominciato è un vasto processo sociale: come reazione al sospetto generalizzato di irrilevanza verso le scienze umane (sospetto che può avere conseguenze tangibili sui fondi assegnati alle università), molti docenti e studenti hanno cominciato a premere per trasformare le discipline umanistiche in qualcosa di simile al braccio ideologicamente agguerrito (con le armi della cultura più raffinata) dell’attivismo progressista. In un classico sviluppo storico-dialettico che sarebbe molto interessato a Marx ed Engels, questa radicalizzazione ha avuto peraltro anche l’effetto di aumentare la tradizionale sospettosità di vasti strati dell’opinione pubblica, e di molti nuclei del capitalismo più conservatore, verso gli studi umanistici — ma questa è un’altra storia.



Il preambolo può esser sembrato lungo, ma era necessario per collocare in una prospettiva seria lo scandaletto che ultimamente è rimbalzato anche sui giornali italiani: la diffusione cioè, in varie università, di richieste, da parte di gruppi studenteschi appoggiati da vari comitati di controllo sul multiculturalismo, di segnalare all’attenzione ammonitoria di docenti e discenti quei passi di opere ormai inscritte nel canone letterario antico e moderno (dalle Metamorfosi di Ovidio ai grandi romanzi della modernità americana) che possano provocare “traumi” o apparire men che rispettose delle diverse “identità”.  



Parlando di letteratura, non è fuor di luogo una noterella terminologica: l’italiano tende a designare queste marche di avvertimento con parole come “bollini” o “bollini rossi”, mentre in inglese — con la mescolanza tipica della cultura americana fra gergo para-scientifico e linguaggio bellicoso — si parla di trigger warnings. È vero che il termine trigger è qui usato nel senso di “evento che fa precipitare altri eventi” (e in questo senso la parola inglese mi risulta essere usata oggi anche in italiano, nell’ambito delle scienze mediche e psicologiche), ma è innegabile la suggestione di violenza che il termine possiede nella lingua originaria: trigger è soprattutto usato in inglese nel significato di “grilletto” di un’arma da fuoco (e, com’era prevedibile, coloro che fortunatamente hanno cominciato a opporsi a questi eccessi, hanno cominciato a parlare di contestatori trigger- happy, ovvero “con il grilletto facile”).

Ultima osservazione. Non è un caso che queste forme di intolleranza — esistenti, come detto, da tempo nelle università americane — siano giunte in questi giorni all’attenzione italiana per via di una miscela, diciamo così, esplosiva: un famoso classico latino (le già citate Metamorfosi) contestato nella prestigiosa Università di Columbia — abilissima (come tutte le università della “Ivy League”) a “vendere” la propria immagine in termini pubblicitari (e non importa poi molto, come noi italiani abbiamo imparato già ai tempi del Futurismo, se la pubblicità sia positiva o negativa). Allora, fine della storia? Beh, sì e no: dove finisce un aneddoto, può cominciare un ragionamento.  

Prima di buttarsi a capofitto nell’ultima moda (a quando i bollini rossi nelle università italiane?) o (all’altro estremo) prima di stracciarsi le vesti per l’indignazione, sarebbe bene ricordare qualcosa che — con il costante lavaggio hollywoodiano del cervello e il diffondersi dei viaggi aerei low-cost — è facile dimenticare (con conseguenti fraintendimenti): nonostante le apparenze, gli Stati Uniti e l’Europa — soprattutto l’Italia — restano due mondi molto differenti. 

In sintesi. Negli Stati Uniti esiste un pieno stato di diritto — con conseguente rispetto della proprietà privata e della civiltà del dialogo — e un sistema universitario selettivo, bilanciato fra istituzioni private e istituzioni a base regionale (i singoli States) con ambienti protetti da sistemi di sicurezza (ogni campus universitario ha il proprio corpo di polizia, che sa distinguere fra gli studenti e gli agitatori esterni), sistema che, d’altra parte, è molto attento al dialogo costante con gli studenti. Esiste inoltre una separazione netta fra l’ambiente degli undergraduates (gli studenti dei primi anni, più intellettualmente avventurosi, ma anche più insicuri e con tendenze iper-protettive e alquanto narcisistiche, dunque col “grilletto” psicologicamente “facile”) e l’ambiente professionalizzato dei graduate students

E tutto questo, sullo sfondo di una situazione sociopolitica in cui il radicalismo classicamente di sinistra (fondato su gruppuscoli con un’ideologia palingenetica sempre pronta a civettare con la violenza) è in profondo declino; e lo spazio lasciato quasi libero è stato occupato da un’ideologia ibrida: un coacervo di femminismo, ecologismo, psicoterapismo igienistico, cultismo religioso, retorica identitaria. 

Inutile sottolineare (ma forse non è poi tanto inutile) le differenze del pianeta Italia: uno stato solo parzialmente di diritto, un sistema universitario statalistico, pseudo-campus senza sicurezza, persistente confusione nei passaggi professionali. Il tutto, sullo sfondo del solito vecchio radicalismo, dove predominano, da un lato i gruppetti sempre pronti a spaccare tutto, e dall’altro una retorica sindacalistica un po’ svelta nel dire “no” alle innovazioni. 

Che significa, in fondo, tutto ciò — al di là dell’aneddotica su Ovidio, i bollini e tutto il resto? Significa che le università statunitensi hanno già cominciato a sviluppare gli anticorpi contro gli eccessi anacronistici descritti sopra: ricercando l’equilibrio appropriato fra la coltivazione dei classici e l’applicazione a essi degli strumenti della modernità. Sono in grado, le università italiane, di gestire le inquietudini più o meno demagogiche sviluppando i necessari anticorpi? La risposta non può che restare aperta: forse tutto quello che si può dire è che, in questo come negli altri campi, l’università italiana è impegnata in uno sforzo che — nonostante le sue tentazioni di cinismo — non si può che definire eroico.