Caro direttore,
più si avvicina il giorno dello sciopero generale della scuola, più aumenta la confusione esasperata da uno scontro ideologico che sembrava cosa di altri tempi ma che la scuola riesce nell’impresa di rivitalizzare. E non solo governo da una parte e sindacati dall’altra alimentano lo scontro: WhatsApp è diventata la cinghia di trasmissione di un modo di affrontare la questione fatto di slogan e concetti superficiali, tanto che cresce la già diffusa ignoranza di nozioni semplici come scuola pubblica e scuola privata, autonomia e decentramento, dirigente scolastico (sceriffi contro funzionari).
Bisogna fare chiarezza; questo è il primo problema e viene prima dello stesso sciopero, perché l’unico vero successo di questo sciopero, se così si può dire, è quello di porre le vere e irrinunciabili questioni della scuola. Urge che lo si faccia, perché senza questa chiarezza non si potrà fare nessun passo in avanti, anzi si finirebbe per tornare indietro, e sarebbe l’ennesima occasione perduta.
A mio modo di vedere un merito a Renzi lo si deve, ed è quello di aver messo la scuola al centro del dibattito politico italiano. La centralità della scuola è ora ribadita da questo sciopero, ma non basta, perché una scuola al centro ma concepita in modo ridotto sarebbe la iattura più grande che ci può capitare. Per questo si deve e al più presto fare il punto sulla situazione e identificare le questioni irrinunciabili per il mondo della scuola, così che su queste si costruisca.
La prima delle questioni irrinunciabili è la riforma dell’insegnamento. Non la riforma dei programmi, né quella dei curricoli, ma più radicalmente quella dell’insegnamento, così che arrivi ai ragazzi la freschezza del conoscere. Perché si avvii questa riforma c’è bisogno in primis degli insegnanti e poi di studenti e genitori, c’è bisogno che vengano liberate le energie positive di ognuno, e tutto sia occasione di poter guardare la realtà come orizzonte della ragione umana. Vi è bisogno di una riforma radicale dei sistemi di insegnamento e di studio, che si sviluppi una ricerca di nuove modalità di conoscenza, di forme più efficaci dell’apprendere. L’obiettivo dev’essere che ogni studente trovi una strada tutta sua di conquista del sapere, una strada su cui ogni passo nuovo sia una crescita del suo io umano. Superando la contrapposizione tra programmi e competenze, bisogna individuare metodologie didattiche che sappiano promuovere entrambi, sia l’imparare sia lo sviluppo della critica. Bisogna investire su questo. L’insegnamento diventi oggetto di laboratori reali, dove vengano trovate prospettive finalmente incisive della comunicazione del sapere e la scuola torni ad essere luogo di cultura.
La seconda delle questioni irrinunciabili è l’autonomia, e con essa, inscindibile, la parità. Bisogna che dopo anni e anni in cui si è solo parlato di autonomia e di parità, si arrivi a vararle fino all’aspetto economico. Questa è l’urgenza del tempo che stiamo vivendo, con una nota decisiva: senza una vera riforma degli organismi di gestione dell’autonomia, la scuola verrà inevitabilmente inghiottita dalle fauci voraci dei presidi-sceriffo. Gli attuali organi collegiali sono natura morta, da rivedere in modo radicale, così che si arrivi ad una presa di responsabilità reale da parte di chi vi partecipa. Qui il problema riguarda tutto il mondo della scuola, nel quale, in assenza di criteri per verificare l’efficacia di quello che si pone, qualsiasi cosa si decide e si fa in un modo o nell’altro va sempre bene.
La terza questione è lo stato giuridico degli insegnanti. Serve una svolta, dopo anni e anni di discussioni inutili. Oggi gli insegnanti continuano ad essere dei burocrati e nemmeno l’organico funzionale cambierà la situazione, anzi la consoliderà. Si tratta di trovare la strada per valorizzare e potenziare chi tenta nuove dinamiche di insegnamento, chi risulta efficace nel suo lavoro, chi è capace di liberare le energie creative di ogni studente.
In una parola, non la Buona Scuola è il futuro della scuola italiana, ma una reale scuola della libertà. Per questa bisogna lavorare, prima e dopo lo sciopero generale, e la strada per farlo è quella del dialogo.