Studiare la letteratura potrebbe essere cosa noiosa — specie per degli studenti di un istituto tecnico.     Ma non è detto. Può accadere di imbattersi in un tematica letteraria come quella della fortuna, che ha dato tantissimo da pensare — e senza venirne a capo — ai nostri letterati, pensiamo solo a Boccaccio e a Machiavelli, ma che pure può far breccia nella curiosità dei ragazzi. A quel punto chi o meglio di Mario Calabresi e del suo libro “La fortuna non esiste” poteva diventare interlocutore in una discussione tra studenti? Non lo abbiamo contattato in video conferenza. Siamo andati a trovarlo, a Torino, nella nuova sede de La Stampa da dove ormai da anni dirige il quotidiano piemontese. 



Non gli abbiamo fatto un intervista a tutto campo. E’ stato un veloce scambio di battute, intenso, un incontro. Nessuna tesi precostituita sulla fortuna. Calabresi non vuol sentir parlare di teoremi. Conosce l’arte del racconto, maestro qual è di giornalismo, quello di chi mediante la scrittura ti fa sentire il sapore e il profumo della realtà. Qualcosa che il padre del giornalismo moderno — Daniel Defoe, altro autore in programma — conosceva bene: guardare a occhi aperti, osservare con curiosità, fissare e paragonare dettagli, sorprendere il non detto e poi …scrivere! E’ con una scrittura così che la realtà arriva direttamente al lettore, come quando si beve l’acqua di sorgente direttamente, senza bicchiere e a sorsate. 



Ne parliamo con Mario che si schermisce davanti agli apprezzamenti sulla sua scrittura. Preferisce entrare nel dettaglio dei personaggi che ha personalmente conosciuto e raccontato. Ci chiede quale storia ci sia piaciuta di più fra le diverse storie del libro; ci ha fatto discutere molto quella su Tammy Duckworth, una delle prime donne a pilotare un elicottero da combattimento negli States. In missione in Iraq nel 2004, Tammy è stata abbattuta nei cieli di Bagdad, mentre a 250 km l’ora sfrecciava sulle cime degli alberi per non essere colpita. La sfortuna ha voluto che fosse abbattuta e che in seguito perdesse tutte e  due le gambe… “Ma lei — ricorda Calabresi — si arrabbiava se  dicevo che aveva perso gli arti inferiori per un incidente di guerra”. “No. Ho perso le gambe per il mio paese, non le ho perse per una stupida guerra in Iraq e sicuramente non le ho perse per George Bush”. 

Tammy — dopo un  certo tempo sempre chiusa in casa o a letto in silenzio, a piangere tutto il giorno e a pensare alle gambe che non aveva più — un bel giorno si è detta: “Tammy, muovi il culo, è ora di alzarsi”. Protesi di metallo, trenta operazioni, dolore e infezioni ed ecco… una nuova Tammy, che cammina, guida la macchina, fa palestra e ora si immerge perfino come sub. “E che  gaff — confessa l’autore — ho fatto quando vedendo la muta, la maschera e la bombola d’ossigeno in un angolo dell’ufficio le ho chiesto se erano lì per ricordare lo sport da sub che praticava prima dell’incidente!”. 

Per Calabresi se Tammy è riuscita a fare della sua vita un miracolo non è stato per una fortuna, quella di aver incontrato persone amiche, bravi psicologi o per l’insieme di circostanze che l’hanno portata a collaborare anche con Barack Obama, prima che questi diventasse presidente.  “Sì, tutte queste cose aiutano ma non sono state decisive. Quegli aiuti sono valsi come scintille che non avrebbero mai incendiato il suo cuore se lei non si fosse data una mossa”.

Mario Calabresi è stato per due anni negli Usa per documentare tante altre storie di uomini e donne — come quella di Tammy — che hanno avuto il coraggio di rialzarsi, ad esempio dalla grande crisi  finanziaria — “la bolla immobiliare” — che ha colpito l’America. Racconta di facce nomi aneddoti, di cosa accade nel cuore di chi  precipita nelle periferie esistenziali ma trova la forza di rialzarsi senza aspettare la fortuna, per innestarsi nella grande positività del reale. 

Riccardo, uno studente che ama più giocare a carte che studiare le lettere, chiede: “Però lei come fa a svolgere il lavoro di giornalista, avere passione per un lavoro fatto di notizie sempre negative?”. 

“Sai, è come in un condominio — la risposta —. Noi diamo per scontata la normalità. Di cosa si parla nel condominio dove abitate voi? di quello che al terzo piano urla e sbraita con i figli che rincasano tardi, oppure di due che al secondo piano litigano o si tirano i piatti, oppure si parla di chi non paga le spese condominiali. E’ vero i giornali parlano di un sacco di notizie brutte e ci sembra troppo! Però forse guardiamo troppo poco o diamo troppo poco valore al nostro quotidiano. Comunque ci si appassiona a questo lavoro per via della curiosità. L’anima del giornalista è la curiosità”. 

Giovanni Battista, un altro studente che ama più le discoteche e cambiar morose che leggere giornali: “Ok, però come si fa restare uomini normali in un mestiere in cui si è a contatto con tutti i mali del mondo e di più?”.

“Mantenendo lo sguardo e gli occhi sempre nuovi sulle notizie si resta umani — risponde Calabresi —. Io ho un fratello che ha fatto il volontario sulle ambulanze. Lui mi raccontava che fare il soccorritore è un po’ come fare il giornalista, se si pensa al fatto del 118 che ti può mandare in una situazione di emergenza nella quale non sai cosa troverai. Bisogna essere vigili: che adrenalina ma anche che responsabilità! E lui mi raccontava di alcuni soccorritori — la cosa  vale anche per un giornalista — che al rientro da un servizio alla domanda ‘Allora com’è andata?’ rispondevano in maniera cinica: ‘Ah, niente, nessun morto. Niente di che’. Ma come sarebbe? La faccenda diventa interessante se ci son i morti? Meglio poi se più di uno? Avevo uno zio chirurgo che quando tornava a casa, a cena i figli talvolta chiedevano: ‘Papà, come è andata oggi?’, ‘Eh, mi è morto uno!’. ‘Ma come, papà, hai fatto morire uno sotto i ferri?!’, ‘Sì, è vero, però ho fatto tre operazioni. Nelle altre due ho salvato la vita ai pazienti’. Si può abitare il dramma senza scadere nel cinismo. In conclusione un mestiere appassiona se non ci fai mai il callo, se non lasci stravolgere l’uomo che è in te, sia che tu faccia il giornalista o l’insegnante o il genitore o tu sia un prete o un campione di calcio”. 

Quello con Calabresi è stato un incontro che è venuto dopo quello fatto con Machiavelli. Tutto è cominciato lì. Infatti a chi mai sarebbe venuto in mente di andare a trovare Calabresi se non fosse stato per lui, l’autore fiorentino de Il principe. La discussione era scoppiata quando abbiamo letto questi giudizi: “iudico poter esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”. Come tutti gli umanisti del Cinquecento che hanno inaugurato una idea di ragione come calcolo, come “misura” del reale, anche per Machiavelli il 50 per cento della nostra vita è in mano alla Fortuna (nel senso latino di sorte, destino). In realtà forse per noi postmoderni le cose stanno cambiando: le storie di coloro che nel vivere nascono e rinascono, la cui personalità muore e risorge e che gli eventi aiutano a sviluppare, ci dicono che la fortuna non esiste ma che in noi c’è un divino così vicino, così vicino che a un grande del secolo scorso ha fatto scrivere: “Forse Dio è più vicino al nostro tempo glaciale che al barocco con lo sfarzo delle sue chiese, al medioevo con la dovizia dei suoi simboli, al cristianesimo dei primordi con il suo giovanile coraggio di fronte alla morte; solo noi lo percepiamo… da questo senso del divino potrebbe sorgere una fede, non meno valida, anzi più pura, in ogni caso più intensa di quanto sia mai stata nei tempi della ricchezza interiore” (Romano Guardini).