Da direttore di un collegio universitario, il lavoro che svolgo è complesso e variegato: accompagnare i ragazzi che fanno l’università all’ingresso nel mondo del lavoro, sostenendoli durante il loro percorso di studi. Conosco da vicino quello vivono gli studenti di una città importante dal punto di vista accademico come Milano e i numerosi colloqui e incontri che ho con loro mi stanno facendo rendere conto della direzione nuova dell’università, soprattutto dal punto di vista dell’offerta didattica.



L’impianto didattico italiano, pur se antiquato, ha sicuramente valore; prova ne sono i numerosi giovani italiani che vanno all’estero a svolgere lavori di ricerca non di rado prestigiosi e a ricoprire con successo importanti ruoli in grandi aziende. Eppure, qualcosa nell’offerta didattica e quindi nel conseguente approccio che acquisiscono di fronte allo studio è spunto per interrogativi che crescono con l’andare degli anni e che riflettono un trend culturale ampio e non relegabile al solo mondo universitario.



I nostri studenti sono ben preparati, cosa che consente loro di collocare qualsiasi contenuto di un determinato campo di indagine entro una cornice di riferimento chiara e definita. Questo è un unicum della nostra impostazione didattica universitaria, che si rivela però un’arma a doppio taglio: da un lato produce persone in grado di adattarsi a situazioni diversissime, dall’altro richiede una quantità di tempo fra lezioni e studio molto maggiore di quanto avviene in altri paesi, di fatto invadendo completamente la vita degli studenti. Spesso infatti lo studio è presentato come un totalizzante e unico interesse “importante”, e capita che gli studenti non si diano spazio per allargare l’orizzonte degli interessi e fare nuove esperienze formative o culturali, rinchiudendosi nello spazio dello studio. Invece che allargare le conoscenze, tutt’al più cercano evasioni effimere o ludiche.



Senza entrare troppo nella modalità con cui l’offerta didattica viene impartita, il dato generale è che in molti casi i professori non riescono a staccarsi dalla classica lezione frontale, vuoi per il numero troppo alto di studenti, vuoi perché cambiare è difficile e richiederebbe il supporto di una struttura che dovrebbe pensare di investire non solo nella ricerca ma anche nella didattica, magari valutandola seriamente. Questi problemi si avvertono un po’ in tutte le università, ma molto più acutamente nei corsi tecnologici, che necessiterebbero probabilmente di alcuni ripensamenti nell’approccio.

Al di là di queste criticità, forse insormontabili senza una revisione complessiva del sistema, il punto più interessante e drammatico è che l’esito di questa impostazione spesso dà agli studenti un approccio limitato, anche se le loro capacità teoriche sono di livello più che buono, anzi spesso eccellente. Penso che il limite sia dato dalla percezione dello scopo dell’università in quanto tale. A volte mi diverto a chiedere alle matricole se sanno quando è nata l’università e perché. Rarissimamente ho potuto ascoltare la risposta giusta alla prima domanda (nel Medioevo), praticamente mai alla seconda. Anzi, sulla seconda la risposta è “un anello di congiunzione fra scuola e mondo del lavoro”.

Ora, se nei fatti la conoscenza universitaria ovviamente serve per e al mondo del lavoro, è altrettanto vero che la medesima conoscenza non può avere come ragione ultima il lavoro. L’università è nata e si è sviluppata innanzitutto per un amore alla conoscenza, che trova anche immediata utilità pratica, soprattutto perché fa crescere la persona in un cammino di sviluppo personale senza limiti precostituiti. Ma restringere l’orizzonte all’applicabilità delle conoscenze che si acquisiscono non giova allo sviluppo del “materiale umano” che si va formando. Come già diceva Ugo di San Vittore nel 1300: “coartata scientia iocunda non est“. 

Cosa serve perché un ragazzo sviluppi al massimo grado la sua personalità, anche attraverso lo studio? Forse nuove tecniche mnemoniche o per prendere appunti? Aule più luminose e spaziose? Nuove e roboanti tecnologie? Quello che si vede dal mio punto di osservazione è che i ragazzi hanno bisogno di incontrare qualcuno capace di suscitare in loro passione e desiderio di conoscere. Persone che per prime vivano una sete di conoscenza. Quanti professori entrano in aula con questo “fuoco”? E quanti sono disposti a compromettersi con gli alunni?

Non si diventa grandi da soli: il rapporto autorevole — fondamento dell’università medievale — resta la pietra d’angolo su cui fare crescere le persone. Questo andrebbe recuperato come tesoro su cui ripensare l’università italiana, vecchia nell’impostazione fortemente elitaria, ma protesa a raccogliere un numero di studenti sempre più grande, anche da altri paesi. Recuperare il fattore relazione è il segreto per fare crescere nuovi protagonisti in ogni campo, al di là delle particolari condizioni nelle quali il corpo docente è chiamato a operare, e al di là del dettaglio con cui si offre la materia da studiare.

L’università opera un trasferimento delle conoscenze: ma è il trasferimento della sete di conoscere ciò che mette in moto un dinamismo nuovo nella persona. Altrimenti avremo ottimi, anzi eccellenti “prodotti”, bravissimi sotto il profilo tecnico e delle competenze, pronti a cogliere tutte le occasioni migliori per occupare posti di prestigio e ben remunerati, ma poveri umanamente. Il mondo accademico deve continuamente decidere: formare persone instillando in loro il fuoco della conoscenza, o produrre “solo” ottimi professionisti? E per che cosa? Per quale ideale? 

Il trionfo della tecnocrazia, quanto di più limitato e pericoloso si possa pensare, è dietro l’angolo.